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La sofferenza maschile di fronte alla mancata paternità

Aborto spontaneo, la perdita improvvisa e imprevista di un figlio ancora non venuto al mondo. Un evento che segna profondamente la donna e squilibra la serenità della coppia. Dei due partner l’uomo è quello percepito come più forte e razionale. In grado di gestire autonomamente, e apparentemente senza pesanti strascichi, la delusione di una mancata paternità è spesso lasciato a cavarsela da solo. È veramente così? L’esperienza dell’aborto ha un impatto pesante e traumatico anche sulla psiche maschile, che necessita comprensione, supporto e ascolto. L’uomo tace il suo tormento e non si espone nella rabbia così come nel dolore.

Le sofferenze psicologiche patite possono essere anche gravi. Tra incapacità di reagire e senso d’impotenza, l’uomo crede di non saper aiutare la propria compagna nell’elaborazione del lutto, perdendo di vista anche il proprio bagaglio di sofferenza. Ciò che si era immaginato di una vita a tre non trova realizzazione. Ogni fantasia di famiglia finalmente allargata deve essere ridimensionata. Quel figlio concepito ma inaspettatamente interrotto nel suo progredire alla vita deve cessare di esistere nell’immaginario affettivo anche dell’uomo. Lui, della gravidanza, non ne aveva percepiti i piccoli cambiamenti fisici subiti, tuttavia ne aveva accompagnato consapevolmente e vissuto di rimbalzo le forti sensazioni. La perdita di un ‘potenziale’ figlio in caso di aborto è anche un attacco sottile alla propria identità di genere, alla propria virilità, al ruolo di padre e alla sua partecipazione nel dare l’avvio a una nuova vita.

Le parole di R.

“Vedi dottorè, anche oggi nun me ne capacito”. R. inizia la seduta con la sua solita rabbia, anche se affievolita. Siamo alla seconda seduta, si esprime sempre un po’ in romano quando è arrabbiato più del solito e vuole farmi arrivare ciò che pensa in modo diretto. È senza filtri R., si presenta schietto anche nella sua parte più debole. Mi dice che in famiglia, la sua sofferenza non può farla vedere. Lui è il capofamiglia. La moglie conta su di lui. “Se crollo io, non possiamo ricominciare a progettare di rifarlo”. R. ha sentito la necessità di iniziare una terapia dopo un aborto spontaneo della moglie. Lei era di “qualche mese”, non specifica di quanto e non insisto. Che cosa cambierebbe? Il dolore è sempre dolore, è soggettivo e “non si misura in base alle settimane”.

È dopo una breve telefonata che R. arriva a studio. Da solo. Ha “bisogno di uno spazio”. Un tempo tutto suo. È in questo spazio che R. finalmente piange. Un pianto inizialmente trattenuto, composto, dignitoso e virilmente accettabile. E’ un uomo grande e grosso R.

“Il fatto dottorè è che nessuno te lo spiega che la delusione fa così male. Ti racconti che sei deluso, punto. Basta che ci riprovi e tutto torna come prima. Ma nun è così! Devi resettare. Devi prima capire bene cosa ti è successo e poi magari puoi decidere se riprovarci o meno. Io me sò ‘mpazzito due giorni a montare quella cavolo de’ culla in legno, pezzettino dopo pezzettino, con la radio di sottofondo mentre ascoltavo la musica. E dicevo ‘bello de papà’ vedrai come starai bene qua dentro! Tutti che ti sventolano in faccia quanto sarà facile, come sarai felice…ma nun è sempre mica così sai dottorè? A me quelli che ci sono riusciti mi stanno così tanto sul…provo invidia, ma tanta, veramente tanta. È sbagliato? Tutti che ti chiedono, indagano, si dispiacciono e tornano dalle loro belle famiglie. E tu? Da solo coi tuoi pensieri. Perché quelli me li gestisco io e nessun altro, sai?”.

Eccola la rabbia di R., il suo livore verso il prossimo felice e appagato. La felicità altrui è ciò su cui, adesso, R. esclusivamente e selettivamente si concentra. Una visione distorta dal proprio dolore e dalla propria rabbia. Ridimensionare questa distorsione potrebbe aiutarlo a uscire dalla disperata ingiustizia di ciò che lui non ha potuto ancora avere.

“A me dispiace tanto per lei, veramente. La vedo che in alcuni momenti si assenta, lì ferma in cucina, fissa un punto oltre la finestra. Io non so come aiutarla. Mi avvicino, la abbraccio. Ma non mi sembra abbastanza. Faccio ciò che posso. So che insieme ne usciremo. E a me? Nessuno pensa che anch’io possa star male?…‘Sono incinta’, quando me lo disse, ero al settimo cielo. Ho iniziato subito a bomba a fare progetti, mandare messaggini, a paga’ da beve! La prossima volta mi faccio i fatti miei. Che ne sapevo io che finiva con un aborto! Ero così sicuro. E’ che mi sento responsabile di aver contributo al fallimento in qualche modo, ma non capisco ancora dove e cosa ho sbagliato”.

L’uomo nel suo ruolo di capofamiglia, di sostegno nelle difficoltà può perdere la sicurezza di sapercela e potercela fare in alcuni frangenti dolorosi. Ti saper aiutare l’altro e se stesso. Perde la concentrazione sulle risorse possedute. L’autostima decresce.

Il senso di colpa, la sensazione di essere responsabile dell’evento tormenta R., ma è all’interno di questo paradossale controllo degli eventi che si trova la chiave di svolta per perdonarsi. Per accettare ciò che non si è realizzato ancora, abbassando certezze, aspettative e toni di rivendicazione.

Mi saluta R., più leggero e con un po’ di strada ancora da percorrere.

 

I contenuti esposti in questo scritto sono stati condivisi volontariamente e autorizzati esplicitamente alla pubblicazione in forma anonima. Ringraziamo quanti hanno voluto condividere, attraverso le loro frasi, opinioni personali, problemi sofferti e successi conquistati.