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Una mente consistente in un corpo evanescente

Anoressia. Quando vivere nel proprio corpo non è semplice. Non è un compito scontato. A volte il corpo può diventare la nostra gabbia. Un luogo ignoto in cui la mente si perde, non riconoscendosi più.

Il corpo racconta chi siamo, custodisce in sé il passato, il presente, il futuro. La nostra storia, fatta di pensieri, di attimi, sofferenze e gioie.

Quando neghiamo chi siamo e non accettiamo noi stessi o quando vorremmo diventare invisibili, vaghiamo come fantasmi, sino a che il corpo denutrito di cibo e di affetto, un corpo non amato, si trasforma nel tempio della nostra assenza.

Questo è il corpo di una persona anoressica. Un corpo che racconta l’incapacità di essere presenti a se stessi, la paura di accettare quella parte di sé che vorrebbe essere amata e nutrita ma teme di esporsi. Così non lascia emergere alcuna parte di sé, non si lascia toccare, non permette a nessuno di provare empatia e amore per sé, poiché non sente di meritarli.

 

Un film che parla di persone non di anoressici

Fino all’osso o To the bone è un film del 2017 di Marti Noxon. Film molto criticato per la modalità con la quale ha trattato un tema ancora oggi percepito come un tabù. Questo film racconta l’anoressia vissuta da Ellen, una ragazza di 20 anni proveniente da una famiglia disfunzionale.

Ma non è la trama di per sé a colpire in questo film, quanto l’approccio. L’aspetto innovativo rispetto al raccontare questo disagio psicologico senza risposte facili o pregiudizi, senza filtri. Piuttosto, come tavole bianche desiderose di conoscere l’anoressia di Ellen, che sarà diversa da tutte le altre. Potrebbe stupirci quanto è lontana dalla realtà la pretesa di comprendere e curare attraverso una diagnosi.

Ellen “combatte” con l’anoressia da tutta l’adolescenza e ciò che si scontra con il suo disagio è fin da subito la diagnosi. Il concetto per cui basta conoscere il problema per risolverlo e che non si tratti dell’anoressia di Ellen ma di anoressia e basta. Ellen subisce vari ricoveri, sino a quando la seconda moglie del padre la accoglie in casa dandole un ultimatum. Ellen accetta di essere ricoverata per un’ultima volta in un centro un po’ diverso, dove ragazzi e ragazze con disturbi alimentari hanno un regime di comportamento basato su una sola regola: la responsabilità.

Infatti non è semplice entrare nell’ottica che la persona con disagio psicologico possa attribuirsi la responsabilità delle scelte fatte e comprenderne le conseguenze, quando il resto del contesto impone una visione passiva in cui il paziente subisce l’intervento e viene riabilitato. La strategia dello psicoterapeuta che la segue si basa infatti sul conoscere Ellen e capire che fino a che non avrà “toccato il fondo” il suo personale “fondo” non sarà in grado di risalire e quindi di guarire.

Il principio di base è che nessuno cambia se non si dà il permesso di cambiare. Tu, il tuo corpo, il tuo comportamento sono una tua responsabilità e non puoi eluderla, facendo finta di non dover respirare o mangiare, perché ritiene di averne paura.

 

La responsabilità della vita e della morte

Ellen ha un solo obiettivo, quello di far si che la circonfereza del suo braccio entri nel cerchio costruito dalla sua mano. Il suo obiettivo è quella magrezza che desidera e che è parte della sua ossessione, la dipendenza dal pensiero del cibo in contrasto con il desiderio dello stesso. La sua anoressia mostra la paura di perdere il controllo, di crescere, il terrore delle conseguenze delle sue azioni. Ellen passa attraverso alti e bassi durante il ricovero in questo centro per disturbi alimentari e non percepisce il suo star meglio, nega la possibilità di poter guarire. Instaura una bella amicizia con uno dei pazienti, il quale assumerà una funzione fondamentale per lei, sarà il giudizio e il filtro con il quale infine sarà in grado di vedere se stessa. Mentre osservandosi sfinita dall’esterno vede il suo corpo nudo steso per terra e pensa “questo ti sembra bello?”.

L’anoressia è cruda, è pesante e profonda. Un disagio che raccoglie il desiderio di morte e nutrimento. Ellen capisce ben presto, scontrandosi con una realtà che per la prima volta non la costringe a guarire, che non può chiedere a nessuno di combattere le sue battaglie.

Quando si rende conto di non essere più una persona per i suoi familiari ma di essere diventata un problema, quando legge negli occhi di sua madre la sofferenza che si prova nel perdere una figlia, capisce che il suo coraggio era davvero un pezzo di carbone che continuava ad inghiottire (dalla poesia di Anne Sexton, citata in una sequenza del film)

 

Una storia narrata e vissuta  

L’attrice protagonista che interpreta il ruolo di Ellen, Lily Collins, ha sofferto di anoressia durante la sua adolescenza. Interpretare questo ruolo ha comportato perdere 9 kg e personificare in parte se stessa e quella sofferenza che ha conosciuto bene.

Questo è forse l’aspetto che più emerge nel film, la consapevolezza di chi soffre di un disagio e lo interpreta senza fingere, appunto senza filtri, come narra anche nel suo libro.

Lily Collins racconta di quanto sia importante prendersi la responsabilità di diffondere queste storie e di non nasconderle solo perché ci fanno paura. La critica ha colpito duramente Fino all’osso, denunciato di mostrare il lato glamour dell’anoressia, stessa accusa mossa al tele film 13 reason why, che tratta del suicidio. Ci sono opinioni contrastanti sulla necessità di parlare di tematiche sociali e sulle modalità attraverso cui farlo. L’importante è che la paura di ciò che non conosciamo non annienti la voglia di cambiare.

 

Riferimenti bibliografici

Collins, L. (2017). Senza filtri. Rizzoli.

 

Valeria Saladino - Fondatore di Psicotypo

Psicologo clinico, psicoterapia ad approccio breve strategico, specializzato in scienze criminologiche, forensi e psicologia giuridica. Fondatore e Presidente di “Psicotypo Associazione per l’Informazione e l’Aggiornamento in Psicologia”. Dottore di ricerca e psicologo esperto ex articolo 80 presso la Casa Circondariale di Cassino. Studiosa della psicologia della devianza, in particolare del fenomeno dell’istituzionalizzazione e delle dinamiche psicologiche che costituiscono quest’ultimo, ha partecipato e coordinato interventi di valutazione e trattamento all’interno degli Istituti Penitenziari. Si è occupata inoltre di nuove dipendenze, gestendo il Behavioral Addictions Research Team, Centro di ricerca sulle dipendenze comportamentali. Oltre alla ricerca svolge attività di tutoring e consulenza per chi è interessato al settore della ricerca e alla costruzione di elaborati di tesi a carattere sperimentale.