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Uccidere il proprio figlio

Quando nasce un figlio non si può fare a meno di pensare a quanto sia gratificante e meraviglioso dare alla luce un essere umano. Si pensa alla bellezza di quell’esserino, all’odore che ha, ai suoni che emette, al visino pulito e quello sguardo che sembra dire più di tutte le parole che non riesce a pronunciare ancora.

E se non fosse così? Se guardando quella creaturina inerme fossi una mamma che sente il bisogno di stringerlo con troppa forza o di colpirlo per farlo smettere di piangere. Se non avessi dimenticato un solo istante di quel dolore che il parto provoca ed ora volessi sfogare quella rabbia incontrollabile su quella “cosa” che per te non è che un oggetto che pesa sul tuo grembo.  La gravidanza lascia i segni sul corpo e scolpisce ricordi e sensazioni nella mente.

Anche se sembra scontato, amare i propri figli non è sempre semplice. Nella nostra società si sente sempre più parlare di tratta di bambini, di donne che vengono violentate e ingravidate per poi godere del ricavato ottenuto dalla vendita del bambino. Donne che odiano le loro creature e se ne sbarazzano come fossero immondizia. Amare il proprio figlio non è un automatismo né una presunzione imposta dalla società. L’idea comune è connessa al fatto che avere un bambino sia una decisione condivisa all’interno di una coppia e che entrambi i partner desiderano e vogliono prendersi cura del futuro figlio. Questo non è più dato per scontato.  Ci si può odiare in una coppia, si può desiderare un bambino e poi sviluppare una sindrome post partum, si può rimpiangere la propria scelta, o nelle situazioni più gravi avere un bambino come conseguenza di un abuso.

 

Sole fra la gente

Spesso la donna che ha appena avuto un figlio sente il dovere di provare l’emozione “giusta”, il sentimento “corretto”. Nessuno le ha mai detto che non esiste un unico modo di sentire le emozioni e che quello che sente dentro di sé non può essere giudicato come giusto o sbagliato, poiché se è vero per lei allora diventerà la sua realtà. La gravidanza e in generale la maternità può diventare per molte donne un vestito troppo stretto. Lentamente la persona indossa la maschera della “mamma” e se questo processo non viene vissuto e moderato lentamente e gradualmente, rispettando i tempi della donna, questo può diventare per lei un cambiamento troppo grande, quasi insopportabile.

In situazioni di acuto stress non è raro che la donna neomamma prenda la decisione di togliere loro la vita. I partner non comprenderanno questa scelta, e loro si sentiranno sia prima, che dopo l’omicidio completamente sole e abbandonate. Il ripudio da parte della società nei confronti di tali crimini comporta la rassicurazione di voler attribuire al figlicidio una spiegazione attribuibile alle patologie mentali. Non sempre però si tratta di psicopatologia. La paura di compiere un gesto tanto cruento si è insinuata ormai da tempo nella mente e nei cuori dei genitori che temono di non riuscire a tenere a bada la rabbia.

 

Desidero uccidere mio figlio

In criminologia si fa una distinzione fra neonaticidio, infanticidio e figlicidio. Nel primo caso si parla di morte entro le ventiquattro ore dalla nascita, nel secondo caso si tratta di uccisione durante il primo anno di vita ed infine, nel terzo caso si tratta di bambini uccisi dal primo di vita in poi. Mentre il diritto distingue solo infanticidio e omicidio, facendo riferimento rispettivamente agli articoli 578 c.p. e 575 c.p., basati il primo sull’uccisione del figlio dopo il parto, in condizioni di abbandono materiale e morale, e il secondo sull’uccisione da parte di un qualsiasi familiare senza le condizioni previste dall’articolo precedente. Questa distinzione fra criminologia e giurisprudenza è fondamentale per comprendere quanto le variabili psicologiche incidano sulla scelta di uccidere il proprio figlio in un determinato momento che non è causale ma ponderato (Bramante, 2005). Uccidere un neonato implica una negazione totale del legame affettivo fra madre e figlio; mentre il figlicidio comporta l’interruzione di una relazione già iniziata, letteralmente fatta in pezzi dall’azione violenta. La componente motivazionale è una distinzione da non sottovalutare se si vuole comprendere il profilo comportamentale e personologico di chi compie l’atto. Un’altra classificazione deve essere fatta tenendo conto di alcune categorie individuate da Resnick (1969):

Esiste una forma di figlicidio definita altruistico, ossia derivante dalla volontà di alleviare le sofferenze immaginarie o vere del figlio. Il figlicidio psicotico che invece viene compiuto da madri che soffrono da patologie psicotiche, anche derivanti dal parto. Un altro tipo è il figlicidio che deriva da una gravidanza indesiderata. Il figlicidio non intenzionale che deriva spesso da negligenze di vario tipo o da abusi sistematici. Ed infine il figlicidio per vendetta, ossia l’uccisione dei figli come forma di punizione verso il coniuge. Esistono altre classificazioni inerenti il figlicidio che presentano caratteristiche simili e descrivono varie tipologie di madri (McKee, 2006): madri distaccate, madri negligenti; madri psicotiche, madri vendicative, madri psicopatiche.

La donna è madre e assassina a volte. Come dona la vita può decidere di toglierla.

 

Riferimenti bibliografici

A.Bramante (2005). Fare e disfare… dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno.

Phillip J. Resnick Child Murder by Parents: A Psychiatric Review of Filicide.

 

 

 

Valeria Saladino - Fondatore di Psicotypo

Psicologo clinico, psicoterapia ad approccio breve strategico, specializzato in scienze criminologiche, forensi e psicologia giuridica. Fondatore e Presidente di “Psicotypo Associazione per l’Informazione e l’Aggiornamento in Psicologia”. Dottore di ricerca e psicologo esperto ex articolo 80 presso la Casa Circondariale di Cassino. Studiosa della psicologia della devianza, in particolare del fenomeno dell’istituzionalizzazione e delle dinamiche psicologiche che costituiscono quest’ultimo, ha partecipato e coordinato interventi di valutazione e trattamento all’interno degli Istituti Penitenziari. Si è occupata inoltre di nuove dipendenze, gestendo il Behavioral Addictions Research Team, Centro di ricerca sulle dipendenze comportamentali. Oltre alla ricerca svolge attività di tutoring e consulenza per chi è interessato al settore della ricerca e alla costruzione di elaborati di tesi a carattere sperimentale.