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Caregiver, burnout e burden

Il termine burnout, parola di origine anglosassone, può essere letteralmente tradotto in italiano con “bruciato”. In chiave psicologica indica una condizione di esaurimento emotivo, morale e fisico, causato da un eccessivo sovraccarico di stress. La sindrome del burnout, frequente nelle cosiddette “professioni d’aiuto”, nasce quando la persona si trova in un momento in cui non riesce più a soddisfare le esigenze e le richieste provenienti dall’esterno, scatenando una sensazione di delusione, d’incapacità. Con il passare del tempo, e con l’aumentare dello stress, si comincia a non provare più interesse nello svolgere compiti e impegni prima considerati fondamentali. Gli effetti del crollo psicologico coinvolgono tutti gli ambiti della vita di un individuo, dal lavoro alla famiglia. Questo cedimento, inoltre, può riscontrarsi anche in coloro che ricoprono il ruolo di caregiver all’interno di quei nuclei familiari con membri bisognosi di continue cure.

Cosa s’intende per caregiver? 

Il termine “caregiver” può essere tradotto in italiano con “colui che si prende cura”. Quest’appellativo, sia in famiglia che in contesti lavorativi, viene dato a colui che si occupa quotidianamente della persona bisognosa, sia essa un genitore, un figlio o altro parente. È bene fare distinzione tra chi il ruolo di caregiver lo svolge come professione e chi, invece, opera perché guidato dal sentimento e dal ruolo che lo lega alla persona ammalata. I caregivers familiari si ritrovano spesso all’interno di situazioni sempre più difficili da gestire, sia perché sono troppo coinvolti emotivamente, sia perché non hanno gli adeguati strumenti professionali idonei a svolgere questo tipo di compito.

Accade, infatti, che per aiutare il familiare ammalato il caregiver si dedichi completamente ad esso, perdendo ogni contatto col mondo esterno; in alcuni casi, anche rinunciando al proprio lavoro, al proprio spazio personale e creando, in tal modo, un progressivo e pericoloso isolamento sociale. Ciò accade perché i caregivers familiari sono mossi da motivazioni intrinseche. Credono che nessuno, al di fuori di loro, possa prendersi cura in modo adeguato del loro caro, sviluppando in alcuni casi una pericolosa dipendenza relazionale, simbiotica ed esclusiva. Pensano costantemente che, senza la loro presenza, la persona assistita potrebbe non farcela… potrebbe nella peggior ipotesi, “lasciarsi andare”.

Così, da figura di sostegno, il caregiver diventa una figura da sostenere; sviluppa un senso di frustrazione e stress sempre maggiori, mostrando anche episodi di profondo nervosismo e rabbia che, in alcuni casi, non sono proporzionati alla causa. Il crescente affaticamento, quindi, porta a un esaurimento, sia fisico sia psichico, in conseguenza a uno stile di vita esclusivamente incentrato sulle esigenze del soggetto che si cura e, nei casi più gravi, addirittura ad una aspettativa di vita inferiore a coloro che non hanno, nel lungo periodo, la gravosa responsabilità di cura dell’altro.

Ricerca, risultati e statistiche

Alcune ricerche hanno dimostrato che il caregiver, sottoposto a stress costante, può sviluppare alti livelli d’insonnia, irritabilità, rabbia, senso di colpa e depressione. Attraverso un questionario, ad esempio, è stata valutata la qualità della salute del caregiver familiare; suddiviso in due parti, la prima si occupava generalmente di memorizzare i dati anagrafici del caregiver (sesso, età, professione, rapporto di parentela con la persona assistita); la seconda, invece, era maggiormente indirizzata alle emozioni che provava il caregiver. I risultati finali confermavano le ipotesi di partenza: il 50% dei partecipanti trovava estremamente faticoso doversi occupare del proprio familiare, il 25% aveva risposto di trovarsi in difficoltà nel gestire questo tipo di ruolo, mentre il restante 25% trova poco o per nulla difficile occuparsi del familiare.

Tale statistica rileva e fa notare che la maggior parte dei caregivers è sovraccaricata, sia fisicamente sia emotivamente. E’, pertanto, il caregiver burden (carico del caregiver) che porta a queste sensazioni di rabbia e frustrazione. Inoltre, il burden, ossia il peso fisico e psicologico, influisce in maniera negativa, non solo sul caregiver ma anche sulla persona bisognosa di cure. Questa situazione può portare il caregiver a sperimentare una vera e propria crisi, dovuta alla sensazione di sentirsi in capace e incompetente nei confronti del progredire della malattia. Il burden può aumentare, portando il caregiver anche all’utilizzo di farmaci e psicofarmaci per alleviare dolore fisico, somatizzazione, tensione e stress, specialmente se:

  • Il caregiver vive da solo con la persona da assistere;
  • Il caregiver non ha nessun tipo di supporto, né economico, né familiare;
  • La persona da assistere si ammala spesso o peggiora la propria condizione di salute.

Come gestire il burden? 

Il caregiver non sempre ammette di avere bisogno d’aiuto o, comunque, non sempre riesce a farlo prima che il carico emotivo e la stanchezza fisica superino il limite di tolleranza personale. Ammettere di aver bisogno di aiuto e avere qualcuno con cui condividere la propria situazione è già un passo avanti per uscire dalla trappola del burden familiare. Secondo elemento, ma non di minore importanza, è accettare la malattia del proprio familiare. La consapevolezza della malattia e delle sue possibili conseguenze porta il caregiver ad affrontare la realtà e a rendersi conto di non essere onnipotente ma di impegnarsi a gestire al meglio la situazione.

Inoltre, è fondamentale dedicare del tempo a se stessi, ricordandosi l’importanza di avere tempo libero (spazio, lentezza e silenzio), relazioni appaganti e soddisfazioni lavorative. È vitale, quindi, riprendere la concentrazione sulla propria vita sociale, privata e lavorativa. Ciò aumenterà l’autostima nei propri confronti e di riflesso consentirà di aumentare anche, laddove possibile, quella di chi sta male. Stimolare la persona ammalata a uscire e impegnarsi in piccole attività o interessi permetterà alla relazione, tra caregiver e parente in difficoltà, di rafforzarsi tollerando anche i momenti di lontananza, e di non essere basata, esclusivamente sulla routine quotidiana e sulla frustrazione.

 

Scritto con la gentile collaborazione di Veronica Pacifici, studentessa in Scienze e Tecniche Psicologiche

 

Riferimenti bibliografici

 

Barnes M. (2010). Storie di caregiver. Il senso della cura. Trento: Edizioni Erickson.
Follador M. (2010). Io madre di mia suocera. Vivere accanto a un malato di Alzheimer. Milano: Paoline Editoriale libri.