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Una vita in carcere

Una storia fra tante. Una vita spesa nel vortice della droga. Quel vortice che non ha tempo e che frantuma i pensieri di chi lo segue. Una storia di sofferenza e incomprensione. Una storia fra tante eppure diversa nel suo essere unica. La storia di Elizabeth.

Elizabeth racconta la sua storia attraverso delle lettere dedicate alla madre, la quale decide di renderle pubbliche dopo la morte della figlia avvenuta nel 2014 a causa di endocardite. Elizabeth si trovava in un centro di detenzione in New Jersey a seguito di una condanna per droga. Aveva seri problemi di eroina e chiamava il luogo in cui era detenuta Decimo girone dell’Inferno, stesso nome riportato nelle lettere come indirizzo del mittente.

Da anni combatteva con la droga e passava da un centro di riabilitazione all’altro senza benefici.  Trascorre gli ultimi anni della sua vita, dopo il rilascio, in Florida. Elizabeth era una bambina molto brava a scuola, aveva ottimi voti e adorava la musica. Quest’ultima è rimasta un punto fermo nella sua vita e l’ha accompagnata durante i momenti più luminosi e più bui. Soffriva di ansia sociale ma non volle mai intraprendere una psicoterapia per questo. Dopo la scuola decide di intraprende un corso di Fashion Design che non darà i frutti sperati a causa dei costanti problemi di ansia e depressione che portano Elizabeth a chiudersi in stanza senza mai uscire. Quando ha 19 anni comincia a lavorare come cameriera e intrattiene rapporti con i colleghi. Da qui entra nel vortice della dipendenza.

Elizabeth prova cocaina ed eorina e contrae l’epatite C. Dopo averlo comunicato ai genitori intraprende diversi percorsi di riabilitazione, compreso il centro di detenzione del New Jersey. La riabilitazione non scalfisce la corazza di Elizabeth, che a vent’anni è spostata con un figlio, del quale purtroppo perde la custodia a causa dei problemi di droga e del conseguente arresto.

 

Ciao mamma! Spero di risentirci presto!

La vita di Elizabeth è una vita trascorsa fra le sbarre, incatenata prima dall’ansia, poi dalla droga e infine dalle istituzioni. Elizabeth conosce la comunità, il carcere e, più di una volta tenta di fuggire, non dalle sbarre ma da sé stessa. Ciao mamma! Così inizia la sua lettera. Parla del più e del meno alla madre, raccontandole dei libri che sta leggendo, commentando la musica alla radio. A volta quando si soffre si trae conforto dalle cose più semplici e rutinarie, quelle sole cose di cui siamo certi. Il senso di impotenza che affligge chi scrive e chi legge. Madre e figlia unite da un filo ben stretto e tagliente che divide e unisce insieme. Eppure è proprio la quotidianità che ci unisce e le paure comuni a tanti fra noi. Ad esempio la paura di possedere troppi difetti e di non reggere il paragone con gli altri.

“Quando sei in prigione devi fare la doccia con altre donne, quindi diventi ipercritica nei confronti di parti del tuo corpo che pensavi fossero ok. 

Per quanto provo a essere soddisfatta del mio, è come essere costantemente sotto esame. Ma almeno non vomito—e cerco di tenermi in forma con la palestra”.

Il bisogno di vicinanza è sempre così forte da tenere strette a noi quelle piccole cose che ci fanno sentire vicini e consapevoli che ci sarà sempre qualcuno che ci ama e che non ci abbandonerà.

Non posso credere che la mia mammina sia riuscita a buttare giù una lettera di quasi otto pagine—c’erano un sacco di spazi. Ma ne avevo proprio bisogno. L’ho già riletta tre volte. Ti sono grata che mi aiuterai a trovare un posto sicuro per quando mi scarcereranno. Mi dà un senso di pace. Mi sono resa conto che tutta la mia vita dipende da alcune decisioni che farò. So che sarà difficile, ci ho pensato non so più quante volte”.

Non sempre ci si sente compresi e supportati e non sempre si riesce ad avere la forza di combattere contro noi stessi. La droga è una forma di autodistruzione auto inferta e sofferta. La nostra capacità di scelta viene alterata e modificata dalla sostanza che sostituisce lentamente ogni parte di noi e che ruba tutto il nostro tempo e il nostro spazio. Diveniamo reietti nelle nostre case, esclusi ed estranei nei nostri corpi.

“So che sono stanca di essere in posti pieni di rimpianti e malinconie. In tutta onestà, però, anche se ci sono stati incontri che mi sono piaciuti e mi hanno preso, mi sento sempre falsa quando sono in quelle stanze [della psicoterapia di gruppo] Penso sempre, “Sei davvero felice che non ti stai drogando?” Perché so che voglio ancora farmi—voglio dire, ovviamente è una delle cose che preferisco fare”.

 

La ricerca di sé fuori da sé

“L’ho detto mille volte: voglio voler smettere, ma penso che sia dalla prima canna che voglio smettere. E quando mi sono fatta d’eroina per la prima volta, era come se finalmente avessi trovato quello che stavo cercando. Potevo spegnere il cervello e, grazie a una sostanza chimica, cambiare di umore ed essere la persona che non posso essere altrimenti. Quello che sto vivendo dovrebbe spingermi a non voler mai più toccare nulla, ma non è così”

Ripeti nella tua mente in maniera ossessiva che non userai più quella droga perché sai che ti fa male, sai che ti uccide ma, la voglia di sentirti in pace con quella che senti essere la tua vera identità ti rapisce e ti costringe a farlo ancora e ancora. Spegni i pensieri, li nascondi come lo sporco sotto il tappeto, aspettando che riemergano più pesanti di prima. Ma sai cosa devi fare per stare meglio e sai che hai bisogno di qualcuno che ti stia vicino e che ti aiuti.

“Voglio davvero arrivare a una situazione in cui posso dire di non aver bisogno di nessun tipo di sostanza per essere a mio agio nella mia pelle […]

non voglio autosabotarmi prima ancora di essermi data una possibilità. […]

Voglio avere una persona di cui mi fido e con cui sto bene perché le uniche volte che ne ho davvero avuta una, non l’ho usata come avrei potuto.

Ma quando mi faranno uscire, non ho altra scelta che vendere il culo perché non danno assegni di mantenimento a chi ha condanne per droga. Se non mi aiuti tu, non so cosa fare. Mi manchi e ti voglio bene! Spero di risentirci presto!”

Articolo pubblicato su The Influence

 

Valeria Saladino - Fondatore di Psicotypo

Psicologo clinico, psicoterapia ad approccio breve strategico, specializzato in scienze criminologiche, forensi e psicologia giuridica. Fondatore e Presidente di “Psicotypo Associazione per l’Informazione e l’Aggiornamento in Psicologia”. Dottore di ricerca e psicologo esperto ex articolo 80 presso la Casa Circondariale di Cassino. Studiosa della psicologia della devianza, in particolare del fenomeno dell’istituzionalizzazione e delle dinamiche psicologiche che costituiscono quest’ultimo, ha partecipato e coordinato interventi di valutazione e trattamento all’interno degli Istituti Penitenziari. Si è occupata inoltre di nuove dipendenze, gestendo il Behavioral Addictions Research Team, Centro di ricerca sulle dipendenze comportamentali. Oltre alla ricerca svolge attività di tutoring e consulenza per chi è interessato al settore della ricerca e alla costruzione di elaborati di tesi a carattere sperimentale.