Skip to main content

La ricerca fra le sbarre

Le ricerche svolte in carcere celano sempre non pochi problemi. Bisogna scontrarsi con il sistema, con l’organizzazione, con le persone che ci lavorano, con i detenuti.

Entrare in carcere indossando le vesti dello psicologo che svolge una ricerca e portare con sé il bagaglio di chi quelle cose le ha studiate ma mai toccate con le proprie mani fa riflettere. Il professionista che guarda per la prima volta oltre la maschera e vede la realtà del carcere si rende conto che quella sensazione di brivido che attraversa la pelle, il sentire freddo quando fuori c’è il sole, il battito accelerato, la tristezza per coloro i quali si hanno di fronte, queste sono cose che nessun manuale ti racconta. Ricordo il pensiero che sfiorò la mia mente quando entrai per la prima volta in un carcere minorile, era una serata invernale e un lieve vento scendeva lungo le mura bianche dell’Istituto, osservavo dalle finestre il buio scendere mentre attraversavo il lungo corridoio spoglio per raggiungere l’uscita. Mentre ascoltavo i miei passi rimbombare pensai: “ adesso entrerò in macchina, accederò i fari e mi farò strada sino a casa, ma loro… tutti questi ragazzi rimarranno qui”. Quando respiri quell’aria e senti la pesantezza che quasi ti blocca i polmoni non vedi più delle persone che hanno commesso un reato ma dei ragazzi, degli adolescenti con una brutta storia e che non sanno cosa sia una vita senza il reato.

La prima cosa che ho pensato prima di entrare in carcere è l’importanza del nome. Eppure un carcere resta un carcere sia che si chiami Istituto Penale, sia che si chiami Casa circondariale. Qualsiasi nome gli avessi dato avrebbe avuto lo stesso peso dentro di me. L’idea incessante che li dentro le persone sono chiuse in cella, tra le sbarre e, che quelle sbarre emettono un suono forte e aspro come la vita guastata dalla sofferenza e dal sangue, quando vengono battute nel primo pomeriggio e prima di andare a dormire.

Sono sbarre forti e resistenti, “anti seghetto” raccontano gli educatori, “gli agenti controllano che i ragazzi non tentino la fuga segando le sbarre, quindi le battono con le grandi chiavi d’orate che portano inciso sul dorso il nome “Marsili”, dal nome del fabbro Egeo Marsili.

Egeo fece la sua fortuna negli anni ’60, quando il direttore del carcere di Pescara, dopo aver visto uno dei suoi lavori in una villa lo chiamò per realizzare un’altra opera. Egeo si rese conto subito del problema che il carcere aveva con le porte e le serrature e costruì in una sola notte un prototipo di serratura per il carcere di Pescara. Da quel momento divenne il referente non solo di Pescara ma anche di altre carceri Italiane. Fece il giro di tutti i penitenziari per illustrare l’efficacia delle sue serrature e l’utilità per il direttore e gli agenti, oltre che per lo stesso Ministero. Cosi divenne Egeo Marsili, il fabbro delle carceri.

Il fabbro che produce chiavi d’orate, non nere, in quanto Egeo non gradiva quel colore scuro e triste e miscelò vari metalli per ottenere un colore diverso, più squillante e meno tetro.

Questa è la storia di quella chiave, una di una lunga serie di produzioni adottate dalle carceri. L’educatore la stringe in mano, quasi con fierezza, a simboleggiare il ruolo e l’importanza del ruolo. Gli agenti la usano in vari modi, chi la tiene laterale e apre le serrature producendo una serie di scatti che si susseguono velocemente, chi la tiene perpendicolare e lentamente, scatto dopo scatto apre la porta.

Sensazioni amplificate

In carcere ogni cosa arriva quadruplicata. I suoni rimbombano ed echeggiano lungo i corridoi. Dalla voce dell’eco puoi percepire lo spessore del vuoto che ti circonda. Il vuoto delle stanze riecheggia su ogni parete destreggiandosi da un muro all’altro e sbattendo fra le sbarre delle finestre chiuse, anch’esse da sbarre di ferro scuro. Quando sei all’esterno e vedi quelle sbarre ti senti estraneo a quella sofferenza, come se per te il ferro freddo non avesse significato ma, quando entri in una cella anche solo per un attimo, magari per parlare con uno dei ragazzi che per motivi di sicurezza non può stare a contatto con gli altri detenuti, senti tutta la potenza di quelle sbarre, le vedi stringersi attorno a te rimarcando tristemente che tu sei dentro e il resto è fuori.

A volte, mentre posi il tuo plico di fogli davanti a un ragazzo o a una ragazza chiedendo di compilarlo perdi di vista il confine fra quella parte di te che sta svolgendo un lavoro e quella parte che vorrebbe cambiare le cose. Ti chiedi perché queste due parti non possano combaciare.

Tutte le carceri sono isole, infinite e sterminate. Gli occhi dei ragazzi sembrano invalicabili mura di pietra ma se si riesce a creare un contatto, a cogliere quello sguardo, forse si può riconoscerlo in altri ragazzi che il carcere lo vivono ogni giorno subendo violenza in famiglia, a scuola, nel quartiere e forse quello sguardo di chi è chiuso in una cella potrebbe aiutarci a capire come fermare un ragazzo che non vede alternative al reato.

 

 

 

Valeria Saladino - Fondatore di Psicotypo

Psicologo clinico, psicoterapia ad approccio breve strategico, specializzato in scienze criminologiche, forensi e psicologia giuridica. Fondatore e Presidente di “Psicotypo Associazione per l’Informazione e l’Aggiornamento in Psicologia”. Dottore di ricerca e psicologo esperto ex articolo 80 presso la Casa Circondariale di Cassino. Studiosa della psicologia della devianza, in particolare del fenomeno dell’istituzionalizzazione e delle dinamiche psicologiche che costituiscono quest’ultimo, ha partecipato e coordinato interventi di valutazione e trattamento all’interno degli Istituti Penitenziari. Si è occupata inoltre di nuove dipendenze, gestendo il Behavioral Addictions Research Team, Centro di ricerca sulle dipendenze comportamentali. Oltre alla ricerca svolge attività di tutoring e consulenza per chi è interessato al settore della ricerca e alla costruzione di elaborati di tesi a carattere sperimentale.