Skip to main content

Che fine hanno fatto le fotografie?

Le fotografie possiedono il dono di custodire la memoria degli eventi passati propri della vita di ciascuno di noi. Ci sono fotografie che preferiamo, altre che ci rattristano, altre che non possiamo tollerare e manteniamo ben nascoste e lontane da noi. Al giorno d’oggi sono poche quelle che possono essere toccate, maneggiate, annusate, vissute e, perché no, strappate e gettate via. La maggior parte di queste restano in quel grande contenitore virtuale che è il nostro smartphone. Questo le racchiude tutte senza distinzione e, molte volte, vengono li dimenticate. Con esse vengono dimenticate anche le sensazioni associate a quelle immagini. Le sensazioni che hanno suscitato nel fotografo e quelle proprie del soggetto ritratto. La storia che quella fotografia racconta e racchiude viene messa in disparte come avulsa dal contesto, dalla storia all’interno della quale viene a collocarsi. Molte di queste poi vengono condivise e pubblicate su svariati social per comunicare qualcosa di sé all’altro. Abbiamo un immenso bisogno di comunicare all’esterno chi siamo e spesso, in questo, le immagini ci vengono in aiuto molto più delle parole.

Perché scegliamo quella particolare fotografia per presentarci all’altro? Cosa gli stiamo dicendo? Qual è il messaggio tacito e profondo che si nasconde dietro a quello sguardo, a quel paesaggio, a quella posa, a ciò che viene esplicitamente ritratto? E se invece spostassimo il focus su noi stessi, cosa vedremmo in quell’immagine? Cosa racconta di noi? Ci riconosciamo? Tolleriamo il ricordo che risveglia in noi? Come ci ricorda Judy Weiser (2017), psicologa e arteterapeuta, le fotografie sono uno straordinario strumento di comunicazione con noi stessi poiché ogni immagine che ci è stata scattata racconta qualcosa di noi. Ogni immagine possiede la capacità di riportare alla memoria una moltitudine di ricordi e sensazioni lontani nel tempo che, connessi alle esperienze di vita successiva, hanno contribuito alla costruzione della nostra identità. In queste circostanze la fotografia può essere considerata uno strumento prezioso per riflettere su se stessi, per riappropriarsi di parti di sé apparentemente dimenticate, per ricucire insieme tasselli sparpagliati di storie passate e per ricostruire una narrazione all’interno della quale potersi riconoscere.

 

Osservare una fotografia

Ogni immagine può assumere svariati significati in base al soggetto che la sta osservando: per colui che l’ha scattata, per il soggetto rappresentato nell’immagine, per osservatori esterni e, infine, per colui che conserva questa fotografia all’interno di un album di famiglia. Ciascuno di noi della stessa immagine ne darà un’interpretazione personale partendo dal proprio vissuto, dalle proprie storie e dal proprio mondo emotivo. Questo vale anche per i cosiddetti selfie. Nel momento in cui scatto una foto a me stesso ho il controllo su di essa e su quello che penso debba essere il risultato finale. Sto quindi comunicando all’esterno come vorrei apparire agli occhi degli altri. Allo stesso modo Musacchi (2016) afferma che: La fotografia è anche uno specchio. […] La domanda “Chi sono io?” Ci perseguita per il resto della vita, soprattutto nei momenti di passaggio in cui la nostra identità si modifica. È la stessa domanda che portiamo nei rapporti di coppia […].  È la domanda che possiamo fare alle fotografie per capire chi siamo, come stiamo diventando, come eravamo, in una prospettiva longitudinale di vita che scorre (p.23).

Nel momento in cui osserviamo una fotografia si crea una relazione tra noi e l’oggetto osservato che elimina le distanze e ci immerge dentro quell’immagine, la rende reale e concreta nel qui e ora. Le fotografie sono vive e, sebbene mostrino momenti appartenenti alla sfera del passato già un attimo dopo lo scatto, dialogano con noi e hanno il potere di tradurre in un linguaggio simbolico le nostre emozioni, anche quelle meno tollerabili e dicibili. Nel momento in cui osserviamo una fotografia, contestualmente ne stiamo modificando i tratti poiché la lettura che ne risulterà sarà dettata dall’assemblaggio di vari fattori passati e presenti: la propria storia di vita, il mondo emotivo, i propri valori.

 

La fotografia come strumento comunicativo e di cambiamento

Il nostro modo di conoscere il mondo avviene attraverso l’uso dei sensi e, per la maggior parte, della vista. Proprio per questo la nostra memoria ha un contenuto prevalentemente costituito da immagini, le stesse immagini alle quali ci si riallaccerà nel momento in cui verrà richiamato un preciso ricordo. La moltitudine di queste immagini è organizzata in quelle che sono le nostre mappe mentali alle quali ci appelliamo per decifrare e interpretare la nostra personale visione della realtà. Quest’ultima trova difficoltà nell’essere tradotta e veicolata attraverso un linguaggio prettamente verbale. Ed è proprio qui che l’immagine, e quindi la fotografia, entra in gioco. Per mezzo di un linguaggio simbolico e iconico le fotografie sono in grado di esprimere sentimenti, pensieri, valori, relazioni e anche la nostra personale percezione della realtà. Detto ciò, “dovremmo dialogare spesso con loro e prestare bene attenzione ai segreti che le loro storie possono svelarci” (Weiser, 2017, p.25).

L’utilizzo della fotografia in un contesto terapeutico offre all’individuo l’opportunità di entrare nel profondo delle narrazioni del proprio vissuto che fino a quel momento si erano appoggiate al solo mediatore verbale: la parola. Proprio per questo le immagini hanno il potere di abbattere quelle difese proprie di ciascuno di noi che ci allontanano da vissuti dolorosi e nascosti. Questi ultimi, grazie alla rievocazione di immagini significative per il soggetto, potranno divenire così tollerabili e quindi da esso stesso contattabili. Allo stesso tempo il soggetto potrà attingere a nuovi strumenti che gli daranno la possibilità di riprendere in mano il proprio vissuto passato attribuendogli un significato nuovo e consapevole. L’esperienza di questi nuovi strumenti permette al soggetto di dialogare apertamente con l’immagine, attuando anche concrete modifiche su di essa. Lo scopo di questo lavoro sarà quello di sperimentare la potenzialità del cambiamento e avere la possibilità di ricostruire una narrazione passata alternativa, più congruente e maggiormente tollerabile.

Scritto da Michela Magnanelli, psicoterapeuta ad orientamento Sistemico-Relazionale. Da anni si occupa di sostegno, educazione e formazione con bambini e adolescenti con disabilità nel contesto scolastico e all’interno di gruppi educativi.

 

Riferimenti bibliografici

Berman, L. (1996). La fototerapia in psicologia clinica: Metodologia e applicazioni. Trento: Erickson.

Musacchi, R. (2016). FotoTerapia psicocorporea: Il lavoro con le fotografie in psicoterapia corporea. Milano: FrancoAngeli.

Rossi, O. (2009). Lo sguardo e l’azione: Il video e la fotografia in psicoterapia e nel counseling. Roma: Edizioni Universitarie Romane

Stern, D. (2005). Il momento presente: In psicoterapia e nella vita quotidiana. Milano: Raffaello Cortina Editore

Weiser, J. (2017). FotoTerapia: Tecniche e strumenti per la clinica e gli interventi sul campo. Milano: FrancoAngeli.