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Molto spesso parli durante le tue lezioni o sui tuoi social di quanto le parole che ognuno di noi sceglie siano fondamentali per rappresentare la nostra realtà, ma allo stesso tempo possono essere anche “trappole” e co-autrici del problema che abbiamo. Nel tuo libro “Il piccolo paranoico”, secondo te quali sono le parole co-autrici del problema di Filippo?

Come dice Terry Soo-Hoo – che è stato per alcuni anni direttore dei servizi clinici al Mental Research Institute (MRI) di Palo Alto – se vuoi capire una cultura, chiediti che cosa secondo quella cultura è degno di onore e che cosa invece è disonorevole. Ciascuno di noi funziona come la cultura di un’organizzazione o di un paese: abbiamo un sistema morale che stabilisce che cosa sia dignitoso e che cosa non lo sia; questo sistema etico identifica le priorità verso cui direzioniamo le nostre azioni, e emerge attraverso “artefatti” – direbbe Edgar Schein – come il linguaggio che utilizziamo per descrivere noi stessi, i nostri problemi e la realtà circostante. Nella “cultura” di Filippo alcuni concetti/parole-chiave sono: “difendersi”, “combattere”, “riscattarsi”, “pretendere”, “lamentarsi”, “rabbia”, “potere”, “bontà”, “morale”… una costellazione di parole che ruota attorno al termine “rispetto”. Come tutti i “valoriali”, Filippo ha come priorità quella di ottenere rispetto dagli altri e di mostrarsi come una persona degna di rispetto.

Nel libro dici a Filippo: “L’unica paranoia lecita è l’anti-paranoia, ovvero ritenere che il mondo stia complottando per il tuo bene”. Cosa possono fare fin da subito gli altri piccoli Filippo nel mondo per convertire in azione questa frase? Da cosa suggerisci di iniziare?

Si tratta di una frase tratta da “I principi del successo” di Jack Canfield, un testo tutto dedito – appunto – a come ottenere più successo. Nel mondo dei valoriali il successo è sì ambìto, ma è anche ammantato di negatività, come se si trattasse di un fatto sporco, per persone senza scrupoli. Ma aumentare il successo – e, al tempo stesso, abbassare le aspettative, suggerirebbe William James – è parte integrante per la costruzione della propria autostima. Suggerirei quindi di partire domandosi: “Se fossi già una persona che ha una visione positiva del successo – e che al tempo stesso non ha aspettative esagerate su di sé e sugli altri – che cosa farei già domattina di diverso rispetto a ciò che faccio normalmente?”

Ad un certo punto parli del “club dei valoriali” e del fatto che le leve che muovono gli essere umani sono due: sentirsi importanti e non sentirsi soli. Ci spieghi meglio che cosa intendi?

Com’è che ci si sente amati? Nei bambini la percezione d’amore arriva dal senso di accudimento, che si concretizza grazie alla presenza di qualcuno che bada loro affinché possano essere soddisfatti alcuni bisogni essenziali per la sopravvivenza come cibo, sonno, riparo, salute fisica. Ma non basta. Un bambino, per sentirsi amato, ha anche bisogno di contatto e di emozioni (come ad esempio quelle vissute nel gioco), non solo passivi (“c’è qualcuno che mi aspetta se io mi avvicino a lui”) ma anche attivi (“c’è qualcuno che viene verso di me quando io ne ho bisogno”). Tradotto in altri termini, il bambino si sente amato se percepisce di essere importante per il genitore (talmente importante da esserlo più delle esigenze personali del genitore) e quindi mai solo (un bambino in grado di allontanarsi da un genitore in modo sicuro lo fa perché non si sente solo; se percepisce la solitudine torna subito indietro). Queste esigenze restano presenti anche in età adulta, anche se è auspicabile che un adulto equilibrato sappia trascenderle e che, per perseguire uno scopo più alto, sappia posticipare il pasto anche se ha fame, posticipare il sonno anche se è stanco, non stare a riparo anche se piove, continuare a lavorare anche se ha mal di testa… e che inoltre sappia perseguire quello “scopo più alto” anche se non è al centro dell’attenzione, anche se si sta annoiando, e anche se non ha nessuno accanto a sé.

Che cosa e quanto ha a che fare “Il piccolo paranoico” con te, con la storia e le esperienze della tua vita?

C’è un “piccolo valoriale” anche dentro di me, ed è il motivo per cui lavoro bene con le persone che hanno questa inclinazione psicologica: capisco la loro rabbia, il loro desiderio di giustizia, il fastidio per i giochi di potere e per la sopravvalutazione degli aspetti seduttivi così preponderanti in una società narcisistica come quella odierna. Come loro, sogno anch’io una società in cui, parafrasando Alexander Lowen, la saggezza occupi una posizione più alta della ricchezza, la dignità sia più ammirata della notorietà, e il rispetto di sé sia più importante del successo personale.