Skip to main content

Kelila… artista, creativo e rappresentante di un Art Gallery in cui sono esposti parte dei suoi lavori. Kelila è partner del Progetto Alice e ci racconta in questa intervista il suo percorso artistico e il suo pensiero, dall’introspezione alla tela.

Partiamo dall’inizio: rispettando la tua scelta di non divulgare la tua identità, ci puoi spiegare da dove deriva il nome Kelila?

Cercavo un nome che non si riferisse a un genere specifico e mi sono imbattuto in Kelila, che io ho scelto di usare con un’accezione neutra.

Sul tuo sito si legge “L’artista è in questi quadri. Non è un’identità sociale, ma è l’insieme di quanto ha da dire”. A questo si lega la scelta di usare uno pseudonimo?

Sì, non voglio essere inquadrato in nessuna categoria, sia essa sociale, di genere o di età. L’idea è che l’osservatore non debba essere distratto dall’identità dell’artista. Credo sia irrilevante sapere se sia uomo o donna, bambino, adulto o anziano, oppure se sia un artista già affermato o un principiante. Vorrei che si riuscisse a concentrare tutta l’attenzione sui quadri. Tutte le risposte sono lì, tutto quello che ho da dire è lì. Non è altro che un rimando alla necessità di essere liberi di godere di qualcosa senza l’influenza di pregiudizi di qualsiasi natura.

 Da dove nasce l’esigenza di dipingere? Ha qualcosa a che fare con la tua formazione?

Direi proprio di sì, ma indirettamente. La mia formazione è molto lontana dal mondo artistico: sono sempre stato indirizzato dalle leggi e dalle regole imposte dalla scienza che mi hanno chiuso in una strana gabbia. Dipingere è come cercare di creare una via di fuga tra quelle sbarre, ogni quadro è una picconata data alle mura che mi opprimono. Sentivo il bisogno di dare sfogo al mio Io senza dovermi attenere a delle norme prestabilite e l’arte, come la musica, è un mezzo straordinario. E poi la conoscenza non ha fatto che rendermi più consapevole dell’enorme vuoto che ho dentro e la pittura a volte riesce a buttare qualche vanga di terra in quel pozzo, facendomi credere che un giorno potrà riempirsi.

Come nascono i tuoi quadri?

All’inizio mi avvicinavo alla tela con in mente un soggetto, astratto o figurativo, ma finiva sempre che ciò che immaginavo si trasformava in tutt’altro. Allora ho smesso di pensare a qualcosa di preciso o di tracciare delle linee che mi potessero guidare in qualche modo. Ora mi capita spesso di dipingere di notte, quando a stento distinguo i colori e a volte non mi accorgo di non aver intinto il pennello, dipingendo a vuoto. Voglio lasciare al caos e all’imprevedibilità l’opportunità di mostrarmi qualcosa che la mia mente o le mie mani limitate non avrebbero mai concepito. La tela deve essere enorme perché il piccolo movimento mi snerva, cerco la soddisfazione con lunghe e morbide pennellate o schizzi di colore casuali. Non mi ispiro a niente e a nessuno, sono una barca costruita senza timone e senza remi mi lascio solo trasportare dalle emozioni e dall’angoscia che spesso mi attanaglia.

In quale componente della tua arte si può riconoscere il vero Kelila? In quale tratto emerge la tua personalità?

In verità io ancora non so chi è il vero Kelila e dai miei quadri questo si evince molto bene. L’osservatore assiste al processo di ricerca di me stesso. I tanti colori utilizzati, le infinite pennellate e gli schizzi improvvisi sono piccole tracce del mio avanzamento nella scoperta. Quello sono io, lì la gente può trovarmi, se vuole.

Quando dici “se vuole” è perché nei tuoi quadri non c’è un messaggio definito che l’osservatore deve cogliere?

Esattamente. Non pretendo di imporre a chi guarda un’emozione che dovrebbe sentire obbligatoriamente. Non c’è una direzione che si deve seguire nei miei quadri, non c’è uno scopo che si deve raggiungere. Spesso la gente passa veloce davanti alle tele, senza poggiare lo sguardo, come se bastasse un niente per amarlo o odiarlo. Alcuni invece sarebbero capaci di stare ore e ore a spulciare ogni minimo dettaglio per convincersi di riuscire a cogliere tutto, di non tralasciare niente. Si interrogano, cercano di carpire quello che vuole comunicare l’autore e a volte si convincono di esserci riusciti. Io non voglio vincolare nessuno, non voglio dire cosa deve provare, non voglio dettare una percezione. Non ci sono imposizioni nel mio fare artistico, né per me né per chi ne gode.

Cosa non ti piace della tua espressione artistica?

Questa è una domanda spinosa. Di solito finisco per odiare tutto, la possibilità di infinite sfumature e sfaccettature della stessa forma mi inquieta. Ho sempre tenuto lo sguardo fisso sull’orizzonte, smarrendomi in tutto quello che l’orizzonte ha da offrirmi, ma forse sarebbe stato meglio guardarsi le scarpe, guardare dov’ero. Come un cieco sono sbadato e mentalmente provato, butto ciò che sento sulla tela senza chiedermi se mai qualcuno verrà a chiedermi spiegazioni. Annaspo sullo spazio bianco nella ricerca di qualcosa che possa strapparmi un sentimento di approvazione di ciò che sono, ma non mi sento capace di giudicarmi in nessun modo. Forse è questa ricerca di approvazione che scatena in me un sentimento opposto: la continua ma inutile speranza di suscitare un’emozione si trasforma nella totale indifferenza. Restiamo io e il mio quadro, nessun giudizio, nessuno sguardo critico, solo io e il mio quadro dai mille errori.

In cosa si esplica per te il rapporto tra arte e psicologia?

Credo sia già emerso dalle risposte che ho dato. In altre parole è l’idea di uscire fuori da ciò che si è e sperare che un giorno quel che crei possa piacerti…