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Intervista a un uomo qualunque… anzi no!

Per comprendere meglio la realtà di oggi, e le dinamiche psicologiche che in molti sperimentiamo, abbiamo pensato di dedicare uno spazio a persone lontane dalla fama e dalla visibilità mediatica, come nel caso dell’intervista ai fondatori dell’ASD Ponte di Nona.
Ecco un uomo qualunque, direbbero in molti, che abbiamo scoperto essere speciale proprio per la bellezza della sua semplicità. Tra alti e bassi, gratificazioni e rinunce, dedizione nello sport e impegno politico vi presentiamo Stefano: oltre quarant’anni, un lavoro fisso con orari proibitivi ma che, nonostante tutto, riesce a difendere una quotidianità che non lo condanna alla routine.
Questo grazie a molte passioni e una visione del mondo dove l’altro è fondamentale, non solo a parole.

Il lavoro che svolgi limita molto il tuo tempo libero, come lo hai affrontato?

Oltre ventitré anni fa, sono entrato a far parte di una grossa catena di abbigliamento e alimentari. Iniziai con entusiasmo perché la speranza di sicurezza trovava finalmente conferme con un lavoro a tempo indeterminato. Potevo cominciare a dare corpo ai progetti: comprare casa e, un domani, costruire una famiglia. Lo stipendio, inoltre, era ciò che mi permetteva di continuare a coltivare le mie passioni, come lo sport, non gravando più sui miei genitori.
Purtroppo passando dal part-time al tempo pieno gli orari da dedicare a me stesso cominciarono a cozzare con quelli richiesti dall’azienda. Una giornata lavorativa con l’orario spezzato riduceva drasticamente la possibilità di gestirmi fuori dal lavoro. Non mi mancava nulla, avevo beni materiali ma non potevo investire serenamente sulle passioni.
Agli inizi non ne ero cosciente e non realizzai subito quanto sarebbe stato sacrificante gestire una vita lavorativa del genere. Aggiungo che, se non avessi preso in affitto la casa vicino al posto di lavoro, oggi sarei costretto a gironzolare per la città nelle tre ore e mezzo di pausa, eliminando definitivamente ogni possibilità di gestione della mia vita. Ma il lavoro serve, è prigione e libertà allo stesso tempo.

Si capisce la difficoltà nell’armonizzare lavoro e tempo libero. Come per le arti marziali, un’attività sportiva che richiede tempo e costanza… come hai fatto a non abbandonarla?

La passione, sempre lei! Quando è forte, non ti puoi permettere di perdere neanche un secondo.
Lo sport delle arti marziali richiede profonda dedizione. Nelle sedute di allenamento si svolgono riscaldamento, potenziamento e tecnica. Minimo un’ora e mezza a lezione, almeno tre volte a settimana. Aggiungi il tempo per gli spostamenti, per raggiungere la palestra dove allena il tuo maestro preferito, la doccia e magari la sera, ogni tanto, un po’ di vita sociale.
Ma questo vale in tutte le attività di una persona: una fase in cui ti riscaldi, una in cui ti eserciti e, infine, la fase in cui ti esprimi.
L’arte marziale forma un pensiero marziale, dove sei portato a ingaggiare una lotta con te stesso. Crescere per essere più forte di quello che eri ieri. Però serve tempo, perché per battere te stesso ne serve molto di più che per battere chiunque altro. Decostruire quello che eri ieri per costruire quello che sarai domani. L’oggi è solo preparazione. La mia vita si basa su questa filosofia, sempre in tre fasi.

Una costante ricerca degli spazi e una dedizione che ti ha portato a diventare un insegnante…

Ho raggiunto un buon livello con il karatè, poi ho praticato anche il kung-fu e il pugilato. Proprio in quest’ultima specialità sportiva mi sono ritrovato ad allenare un gruppo di ragazzi, con i quali sono rimasto in contatto tuttora, anche se non praticano più. Il pugilato è considerato nell’immaginario collettivo uno sport violento. In realtà nasce come arte marziale, era la tecnica del pugno dei soldati romani.

Hai sostenuto dei combattimenti anche a livello agonistico?

Sì, ho fatto dei tornei. E lì ti picchi con dei perfetti sconosciuti. Quando salgo sul ring effettuo una misurazione di chi ho di fronte, guardandolo negli occhi. Ci confrontiamo con i rispettivi gradi di preparazione, e chi avrà imparato di più probabilmente sarà il vincitore. Ma non è violenza e un episodio, di quando praticavo agonismo nel kung fu, può fare da esempio per ciò che affermo. Durante un incontro fratturai un braccio, lecitamente, al mio avversario. Vinsi e proseguii il torneo. Il ragazzo andò al pronto soccorso. Nel pomeriggio tornò con il braccio ingessato, e venne a cercarmi negli spogliatoi per incitarmi a vincere. Non vedeva in me l’uomo che gli aveva fatto male, non ero un nemico ma un degno avversario con cui aveva testato le proprie capacità.
Anche nel pugilato ho avuto esempi del genere. C’era un ragazzo estremamente timido, un dilettante, ma gli incontri disputati li aveva vinti tutti per ko. La timidezza lo rendeva molto riservato. Un giorno, salimmo sul ring per allenamento, ma non ci risparmiammo nel darcele. Da allora ha cominciato a salutarmi. C’eravamo confrontati e avevamo scambiato le nostre conoscenze. Come gli esperti di uno stesso lavoro, “parlavamo” della stessa materia ma in modo differente, ognuno con il proprio bagaglio tecnico.

Uno sport violento, dicono…

La violenza che scaturisce nella lotta è sublimata, e crei un legame molto forte, anche se fino a pochi minuti prima non ci si conosceva. Difficilmente le persone con cui ho combattuto sul ring mi sono diventate nemiche, in quel caso parliamo di stupidità; Il dolore è previsto, ma il rancore può nascere solo se è provocato scorrettamente. Il ring dimostra chi sei, costretto a misurarti con le tue capacità e non parlo solo della tecnica acquisita, ma anche del carattere. Tra quelle sedici corde ti devi confrontare, indipendentemente da chi hai di fronte. Non importa se l’avversario è più forte, devi trovare delle soluzioni e l’unica non prevista è la fuga. È questo ciò che mi rende più forte, perché oggi la fuga è l’arte più praticata. La gente scappa da se stessa, fugge dagli altri, ma alla fine i conti si devono sempre fare, non esistono rifugi tanto lontani da poter evitare sempre tutto.
Ma la lotta nella vita non significa sempre scontro, perché una volta che viene riconosciuta la propria competenza chi è meno preparato si astiene. C’è un detto orientale, dove si afferma che il guerriero più forte è quello che non arriva allo scontro, poiché gli avversari riconoscono la sua superiorità. Si evita lo scontro e si cerca una soluzione alternativa.

..continua..

Scritto da Davide Testa, blogger e articolista, curatore de Le Storie Più Piccole Del Mondo