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Il triangolo relazionale

La famiglia composta di tre elementi è una realtà sempre più presente in Italia. Il triangolo relazionale, a tratti simbiotico, tra madre, padre e figlio sembra essere alla base di stereotipi e leggende che rendono quest’ultimo viziato, prepotente e tendente all’isolamento. Sarà veramente così? Ogni nucleo familiare, indipendentemente dal numero dei suoi membri, genera dinamiche relazionali proprie ed esclusive. L’amore generato è sempre dello stesso tipo (ovviamente se presente); sono le relazioni tra le parti a essere manifestate con differenti modalità. In una famiglia dove c’è un figlio unico, sarà presente un triangolo di relazioni più vicino ed esclusivo che nelle famiglie molto numerose non trova realizzazione o continuità.

Avere o no fratelli e sorelle, quindi, è solo un probabile fattore in grado di incidere su caratteristiche di personalità, sull’autonomia del singolo e sull’immagine di sé costruita nel tempo. Essere un figlio unico può voler dire avere tutto concentrato sulla propria persona: responsabilità, aspettative, sogni, premure e impegno. Un carico che spesso grava sul figlio unico ostacolando il suo processo di svincolo dal nucleo familiare. “Un vantaggio” pensano in molti, quello di essere il fulcro delle attenzioni di mamma e papà. Una realtà, tuttavia, non sempre ostentata e vissuta come facilitante da alcuni figli unici oggi diventati adulti. Adulti in alcuni casi ancora invischiati nel triangolo familiare del quale devono mantenere l’omeostasi. Adulti, per sempre figli unici, perno dell’equilibrio di una coppia genitoriale ora divenuta anziana.

E’ quanto racconta S., 29 anni, all’interno di una seduta di psicoterapia dove si lascia andare su considerazioni del suo essere stata una figlia unica. E, soprattutto, di non aver mai smesso di esserlo.

 

Viziata io?

“Mia nonna materna me lo ripeteva in continuazione: ‘Tu sei viziata! Ai miei tempi tutte queste attenzioni e disponibilità non c’erano! Dovevo dividere tutto con i miei sette fratelli, Io!’ E che era colpa mia se lei aveva avuto tutti quei fratelli? Io ci provavo a spiegarle che quello che mi davano i miei era normale e che in fondo non c’era nulla di male. Ma niente da fare. Mi faceva merende di pane e senso di colpa la nonnina! Come potevo spiegare a lei, e a tutti quelli che me lo facevano notare, anche le maestre, che io dovevo farmi una fatica tanta per meritarmele tutte quelle cose? Mio padre me lo ripeteva ogni giorno: ‘S. è tutto tuo, non dovrai dividerlo con nessuno ma te lo devi meritare’. E con la scusa del ‘meritare’…dovevo sempre andare benissimo a scuola, non fallire, essere obbediente e non lamentarmi mai. Di cosa mai avrei potuto lamentarmi io? Avevo tutto. Nulla da dividere e condividere. La stanza era tutta mia, ‘da principessina’ diceva mia mamma. Sarà pure stata ‘da principessina’, ma la tenevo in ordine e pulita io, nessun altro!”. 

Non più d’uno grazie!

“E poi c’era mia madre, dottoressa. Così oberata di lavoro da percepire un’unica figlia innocua, silenziosa e non problematica come me…come una creatura impegnativa. Andavamo a fare la spesa e alla signora al negozio dell’alimentari che le chiedeva quando mi avrebbe dato un fratellino o una sorellina, rispondeva: ‘Non più d’uno grazie! E’ già così un pensiero avere lei!’ Non ho mai capito se ero un pensiero d’amore o un faldone di pratiche burocratiche da archiviare. Ma se io giocavo anche da sola, dottoressa!, mi gestivo nei compiti e nel tempo libero. Tornassi indietro qualche per problema vero, per puro sfizio, glielo darei…”.

Ride divertita S., nell’esplicitare il suo pensiero dispettoso.

Figlie uniche crescono

“E adesso, a quasi trent’anni, sono sempre una figlia unica; una figlia unica ovviamente cresciuta. Direi anche bene. Non sono arrabbiata con i miei genitori. Essere figli unici ha i propri vantaggi (e svantaggi) così come avere fratelli o sorelle, non crede dottoressa? I legami con loro sono sempre molto forti ma non più morbosi o fagocitanti come un tempo. Riesco a gestirli meglio. Non penso più al fatto che se avessi un fratello forse potrei … o riuscirei … Ci sono Io, punto. E me la cavo anche bene, sa? Cosa mi è rimasto della mia infanzia da figlia unica? Tanta creatività, la capacità di tollerare la solitudine e di sapercela fare con le mie forze. Ho dovuto imparare a chiedere aiuto e a non credermi più così onnipotente, a tollerare distanze, non sentirmi frustrata per le attese e a scacciare inutili sensi di colpa. Ho imparato a condividere oggetti e relazioni, a non essere dipendente; a capire che una cosa o una persona non sono mia esclusiva, possono anche non esserlo! Sono una figlia unica grande e consapevole, adesso. Sono cresciuta da sola ma non la sensazione di essere sola al mondo”.

 

I contenuti esposti in questo scritto sono stati condivisi volontariamente e autorizzati esplicitamente alla pubblicazione in forma anonima. Ringraziamo quanti hanno voluto condividere, attraverso le loro frasi, opinioni personali, problemi sofferti e successi conquistati.

 

Riferimenti bibliografici

Giusti E., Manucci C. (1999), Figli unici. Psicologia dei vantaggi e dei limiti, Armando editore, Roma.