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Diabete e benessere

Vi sono studi compiuti attraverso interviste, test e questionari (Nicolucci et al., 2004) con i quali si è potuto osservare il fenomeno del  benessere nei pazienti diabetici. Per esempio con la somministrazione del questionario Psychological General Well-Being Index, il PGWI, un undice globale attendibile di benessere psico-fisico generale del paziente (Grossi et al., 2002). Inoltre, tale strumento come altri ha permesso agli studiosi di rilevare scientificamente, unitamente a rilevazioni cliniche ed emato-chimiche, che il diabete mellito cagiona alla persona l’insorgenza frequente del disturbo depressivo e viceversa, e con diagnosi di disturbo depressivo egli può facilmente ammalarsi di diabete.

Tuttavia, è fondamentale non focalizzarsi eccessivamente sulle suddette rilevazioni cliniche, senza tenere in considerazione attentamente le aspettative e le percezioni del paziente, in quanto ciò potrebbe portare ad un fallimento degli obiettivi terapeutici, e che nel tempo potrebbero rappresentare la causa per l’insorgenza di complicanze ancor più serie.

 

Depressione

La depressione, insieme allo stress, stimolano persistentemente l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Selye, 1976) e ciò lo dimostrano gli alti livelli di ACTH, l’ormone adrenocorticotropo, che metabolicamente determina un aumento della presenza di aminoacidi e acidi grassi, la cui funzione specifica è propriamente quella di esaltare la sintesi di glucosio quando manca o è fortemente deficitaria la presenza di insulina. E questa esaltazione ha come esito una sovraproduzione di corpi chetonici (quegli acidi che vengono prodotti dal metabolismo dei lipidi), a maggior ragione se vi è scompenso diabetico.

Innanzitutto, v’è da dire che la possibilità di insorgenza depressiva si concretizza in quanto la patologia non può che esimersi dall’incidere fortemente sul comportamento alimentare, ma anche e in modo significativo sull’attività sessuale del paziente (Schreiner-Engel et al., 1987).

È stato ipotizzato che la depressione sia l’espressione di un disequilibrio all’interno del sistema neuroendocrino e specificatamente dell’asse HPA (l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene), fondamentale nel permettere al corpo di reagire allo stress (Kring et al., 2008). In questo caso tale asse rilascia una maggiore produzione di cortisolo caratterizzandosi come un ormone particolarmente glicemizzante, e quindi per tale motivo ne conseguirebbe un abnorme livello glicemico nel paziente.

Il diabete condiziona fortemente la qualità di vita (QoL) del paziente, soprattutto quello femminile, determinando emozioni molto contrastanti. il paziente diabetico cerca i motivi più disparati per giustificare tale patologia, e li cerca anche perché vuole attivare una qualche forma di adattamento che gli permetta poi di convivere pacificamente con essa (Jacobson, 1997).

Il paziente diabetico è una persona che percepisce di essere costantemente controllato, non solo dal suo medico curante, ma anche da sé stesso, in quanto deve continuamente prendere delle decisioni per salvaguardare l’equilibrio glicemico. In questo stato di cose vi è anche il timore di poter prendere delle decisioni errate, le quali possono essere caratterizzate a loro volta da una modalità non del tutto oggettiva.

Gli aspetti psicosociali, da quelli cognitivi a quelli emotivi sono molto importanti a livello di psicologia della salute nel momento in cui si affrontano le problematiche relative alla cura del diabete, e nel momento in cui il paziente deve modificare il suo stile di vita, dovendo diventare il protagonista del percorso terapeutico (Rubin e Peyrot, 1992). In questo frangente possono emergere problematiche squisitamente psicologiche, volte ad impedire il processo di accettazione della patologia, nonché il suo controllo diretto, senza dover delegare ad altri tale funzione (Harvey, 2015; Gentili et al., 2007).

Qui, è centrale la figura dello psicologo non solo per il paziente, ma anche per i famigliari quando si trovano di fronte soprattutto ad un bambino o ad un adolescente diabetico; infatti, sono proprio questi adulti che necessitano in primis di un supporto psicologico, che deve essere messo in atto soprattutto nelle prime fasi in cui la malattia è stata diagnosticata (Ricci Bitti, 2002).

Il disturbo depressivo determina nel paziente l’impossibilità di potersi vedere e riconfigurarsi di fronte a questa nuova e disfunzionale realtà. Resta di primaria importanza l’accettazione della malattia (Gentili et al., 2008).

E l’autostima?

Depressione e diabete conducono il paziente ad un obiettivo peggioramento del livello glicemico, con aumento del peso corporeo, del colesterolo e dei trigliceridi, e ciò comporta cosequenzialmente un insieme di considerazioni connotate da negatività assunte dal paziente, che determineranno col tempo un aggravamento del disturbo depressivo. Di fronte a questa evenienza è importante che l’equipe curante proceda di pari passo con il paziente, consigliando a costui le giuste scelte per ottenere dei benefici e ricostituire su nuovi presupposti l’autostima del paziente e il superamento del connesso disturbo depressivo.Questa dimensione psicologica assume un’importanza significativa, e al contempo deve essere valutata attentamente in quanto influenza in prospettiva l’insieme degli aspetti psicologici, direttamente connessi con la patologia.

Quindi, riuscire a realizzare gli obiettivi terapeutici che ci si prefigge attraverso un percorso terapeutico condiviso non può che produrre un beneficio sull’autostima del paziente, se rapportato ad un cambiamento che origina da egli stesso, e in questo caso portando a compimento l’empowerment nella sua reale consistenza. Se ci si prefiggono obiettivi troppo alti o non concordati è possibile ingenerare nel paziente elementi di frustrazione il cui esito può determinare una sua auto-svalutazione, così come livelli di autostima sovrastimati conducono ad un non-riconoscimento della patologia e producono una inutile e debilitante ferita narcisistica. Con l’empowerment il paziente diabetico si rende conto nella giusta misura che egli può agire attivamente in questo percorso terapeutico, ed è possibile raggiungere l’autonomia.

Coping e risorse

La paura e l’insicurezza in cui versa il paziente può influire esplicitando un’ opposizione negativa alla terapia. È proprio in questa fase che prende corpo l’importanza dell’intervento psicologico per il benessere del paziente attraverso la cura della patologia. In tal modo, egli deve essere persuaso ad aderire prontamente alla terapia, e porlo nelle condizioni migliori per fargli sviluppare un efficace coping adattivo, la cui funzione principale è proprio quella di permettergli di assumere una visione differente della malattia, e cioè quella di considerarla come una sfida da affrontare e superare e non come una minaccia alla sua incolumità o integrità fisica. In questo senso, le abilità e le connesse strategie di coping devono essere convogliate verso un fine specifico: raggiungere gli obiettivi del paziente senza incertezze, insieme a quelli che paziente ed equipe curante si sono prefissati.

In questo quadro di riferimento lo psicologo o lo psicoterapeuta sono consci del tipo di conflitto che sussiste nel paziente, delle problematiche esistenti a livello relazionale, del rapporto tra comportamento alimentare disfunzionale, corpo e io, del controllo e della dipendenza, della rabbia e del bisogno d’essere risarcito. L’intervento terapeutico si esplicita tra l’altro nell’aiutare il paziente a differenziare lo stress in corso, nel dare soluzioni efficaci ai suoi problemi, nell’accettare e quindi elaborare lo stato di salute di costui attraverso nuove modalità adattative contrapposte alle difficoltà che potrebbero sovrastarlo (Leventhal et al., 1984; Lazarus, 2000).

 

Considerazioni finali

Il quadro delineato in questo ciclo di articoli sulla risoluzione relativa ai difficili rapporti che il paziente diabetologico intrattiene suo malgrado con la patologia, e la gestione della stessa dal punto di vista eminentemente terapeutico, impone necessariamente modelli operativi medici e psicologici oggetto di dibattito, considerazioni e studi sempre più approfonditi. Da tuttociò emerge una valutazione psicosociale complessiva, la quale essa stessa deve concorrere attivamente nella gestione della patologia. Oltre ad una attenta osservazione degli atteggiamenti verso essa, si deve tenere in grande considerazione le aspettative che il paziente nutre verso le cure su di lui applicate e il progresso della malattia. È importante considerare anche l’affettività del paziente, i suoi umori, la qualità della vita connessa alla patologia, le preoccupazioni ad esempio a livello sociale ed emozionale. L’attenzione non deve allentarsi di fronte a problematiche psicosociali molto delicate e relative alla depressione, al comportamento disfunzionale alimentare, al peggioramento della dimensione cognitiva che determina poi una grave difficoltà ad aderire al processo terapeutico. Qui, sta l’importanza fondamentale nell’essere pronti ad inserire un trattamento psicologico tra le cure prescritte dall’equipe medica, onde evitare problematiche che possono intaccare l’equilibrio psichico nei suoi vari aspetti.

L’intervento terapeutico in tal modo concepito è in grado di porre in evidenza quanto siano importanti le varie competenze volte alla cura del diabete, così come è essenziale per ciascuna professionalità che compone il team diabetologico. Anche in un contesto assistenziale, al di fuori dell’esperienza terapeutica che si sta consolidando nel nostro paese insieme a quello di altri che condividono lo stesso contesto socio-culturale, deve essere parimenti sentita la necessità di assicurare un sostegno psicologico all’interno di un piano terapeutico e che questo venga posto al centro nella gestione di questa malattia.

Al contempo deve essere riconosciuta come elemento importante e specifico una migliore qualità di vita per il paziente, che possa fungere da ponte tra la decisione clinica e i conseguenti risultati da questa derivanti. L’efficacia di quegli interventi terapeutici volti a ridurre gli effetti negativi della patologia, e quindi migliorare la qualità di vita del paziente possibilmente senza dover fare i conti con oggettivi limiti temporali, viene mediato dall’assistenza vista sul breve termine. A questa si possono apportare importanti e decisivi miglioramenti solo se si tiene conto di ciò che il paziente si aspetta, e cioè un impatto meno traumatico nella cura della patologia, soprattutto per quanto concernono eventuali effetti collaterali connessi al trattamento, una comunicazione maggiormente efficace e un fattivo coinvolgimento del paziente stesso nella gestione della patologia.

Infine, è importante anche aumentare il livello dell’attenzione verso quelle dimensioni esistenziali che permettono una diretta influenza sul benessere di quel paziente, il cui fine è proprio quello di riconoscere in tempo gli elementi di vulnerabilità, e quindi tutte le possibili condizioni che ne possono determinare un aggravamento del suo stato di salute psico-fisico.

 

Scritto da Roberto Martino, dottore in Psicologia applicata, clinica e della salute.

Leggi la parte prima e la parte seconda

 

Riferimenti bibliografici

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