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Una “soluzione” estrema

Ogni anno ottocento mila persone, una ogni quaranta secondi, muoiono mettendo in atto un comportamento suicidario, seconda causa di morte principale in Italia e nel mondo. Per suicidio si intende un atto volontario di porre fine alla propria vita, un gesto condizionato da numerosi fattori individuali ed ambientali, che la persona percepisce come insopportabili. Ed in un carcere? La popolazione detenuta si uccide tra le nove e le ventuno volte in più rispetto alla popolazione libera, portando il suicidio ad essere la forma più comune di morte all’interno delle strutture detentive. Fin dall’ingresso in un sistema penitenziario, l’individuo vive un vero e proprio evento traumatico, poiché si scontra con un nuovo ambiente, rompe i rapporti con il mondo esterno, in particolare con i propri cari, e sperimenta un senso di insicurezza, non solo per le novità del contesto ma in alcuni casi anche per l’incertezza della pena. L’atto suicidario, dunque, può divenire la via d’uscita alle sofferenze che la detenzione comporta.

I fattori esogeni ed endogeni, cioè la presenza di variabili proprie del detenuto e la condizione della carcerazione possono portare la persona a compiere i temuti agiti suicidari. Il suicidio, infatti, è la conseguenza di una serie di aspetti (biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali), che possono rappresentare per il soggetto un fattore sia di rischio sia di protezione. Per fattore di rischio si intende una condizione individuale o ambientale che aumenta la possibilità che si manifesti un atto suicidario. L’impatto varia a seconda della vulnerabilità e della sensibilità della persona nei confronti di quel fattore, del contesto in cui è inserita, e del periodo di esposizione a tale fattore di rischio. I fattori di protezione, invece, possono arginare e limitare il rischio della messa in atto di tale comportamento, come nel caso in cui il detenuto abbia buone capacità di coping (insieme di strategie mentali e comportamentali, messe in atto per fronteggiare una situazione). Tra i detenuti maggiormente a rischio di agiti suicidari rientrano i nuovi arrivati ed i cosiddetti “ergastolani”. Da un punto di vista psicologico, clinico e sociale, diventa fondamentale agire a livello preventivo ed intervenire attraverso un supporto sia psicologico sia psichiatrico, attivando quei servizi adeguati a superare il pensiero suicida del detenuto.

 

Detenuti ad “alto rischio”

A prescindere dalle caratteristiche del detenuto e della pena, sono stati evidenziati quattro ordini di fattori, che possono influenzare gli agiti suicidari:

  • Fattore temporale. I primi giorni o le prime settimane di detenzione rappresentano un momento di forte stress e shock, in cui il rischio di suicidio è maggiore.
  • Fattore anagrafico. I detenuti che tentano il suicidio sono perlopiù molto giovani, si trovano ad affrontare una realtà nuova e diversa, hanno poca confidenza con il sistema carcerario. E questi aspetti incidono sul vissuto psichico ed emotivo.
  • Posizione giuridica. Quando la carriera criminale è molto breve o del tutto primaria, il detenuto è destabilizzato dall’attesa del giudizio, con conseguente rischio suicidario.
  • La probabilità di suicidio è dieci volte maggiore all’interno di carceri sovraffollate, ossia quando il soggetto si trova a vivere in strutture non adeguate o incompatibili con il rispetto della dignità umana.

Inoltre, anche gli effetti psicologici e fisici negativi come depressione, ritiro sociale ed emotivo, ostilità, senso di frustrazione, stress, fobie, incubi ed insoddisfazione nei confronti della propria vita, possono portare a comportamenti di autoaggressività. La letteratura scientifica dimostra che, nello specifico, come detto, i detenuti più a rischio sono i nuovi giunti e gli “ergastolani”. I primi sono quei detenuti appena arrivati all’interno dell’istituzione penale, dunque colore che non hanno mai avuto precedenti esperienze detentive. Oltre ai forti legami affettivi lasciati al di fuori del carcere (non sapendo se rimarranno invariati) ed all’attesa di un giudizio, anche le problematiche con l’alcool, la presenza di disturbi psichiatrici e le recenti ideazioni suicidarie possono rappresentare importanti fattori di rischio.

Gli “ergastolani”, invece, sono coloro che presentano un elevato grado di pericolosità sociale e, per reati particolarmente gravi, vengono condannati ad una pena perpetua. Si tratta di soggetti che utilizzano spesso la violenza auto o etero diretta, ma possono pentirsi del reato commesso, dei danni provocati alla vittima ed ai suoi cari, vivendo la vita e la detenzione con tormento e rimorso. Quando vengono trasferiti in più istituti penitenziari, per programmi terapeutici specifici, vivono più volte il “primo” periodo detentivo (identificabile con i primi trenta giorni), dovendo riadattare abitudini e comportamenti a stili e contesti ambientali diversi. Ugualmente, il lungo periodo di carcerazione può dare maggiori “opportunità” per la messa in atto del suicidio. Anche i cosiddetti eventi trigger, quali la conferma della condanna all’ergastolo, le discussioni con i propri legali e l’interruzione dei rapporti con i familiari, possono esporre ancor di più il detenuto al rischio di tale gesto.

 

Le modalità di intervento

Da tempo, si utilizzano come modelli di riferimento, per spiegare il fenomeno del suicidio in carcere, quello di privazione della libertà e quello di “importazione”. Ad oggi, però, entrambi presentano dei limiti. Il primo modello valuta come rischio soltanto i fattori esogeni, e quindi ambientali, senza tenere in considerazione le caratteristiche tipiche di ogni individuo. Il modello di importazione, invece, si sofferma esclusivamente sui fattori interni del soggetto, tralasciando la sofferenza e gli aspetti contestuali, tipici della reclusione. Per questo, nasce un modello combinato, che spiega come il singolo detenuto risponda in maniera differente alla sofferenza provocata dal contesto carcerario, anche in base al proprio grado di vulnerabilità. Infatti, quando tale grado di vulnerabilità è alto, con un maggiore rischio di suicidio, il carcerato riesce a adattarsi alle condizioni di detenzione soltanto se il livello di privazione contestuale diminuisce. Al contrario, invece, in condizioni eccessivamente deprivanti il grado di vulnerabilità aumenta, portando il soggetto a non riuscire a fronteggiare la condizione in cui si trova.

Ciò permette di riflettere sull’importanza di utilizzare un modello teorico combinato, in quanto sia i fattori esogeni sia quelli endogeni hanno un ruolo rilevante sul rischio suicidario in carcere. È, però, fondamentale sottolineare che ogni agito suicidario, anche nel contesto detentivo, è pervaso da una quota di imprevedibilità. In conclusione, abbiamo visto come l’ingresso in carcere rappresenti un evento critico e traumatico per il nuovo ambiente, per la rottura con i propri legami, per una situazione di incertezza circa il proprio presente e futuro, scatenando forti stress, ansie e angosce, che possono dar vita anche al suicidio. In questo scenario, occorre aiutare il detenuto ad una presa di consapevolezza del proprio stato detentivo, consentendogli di affrontare un graduale adattamento al sistema penitenziario. È importante, infatti, garantire un supporto psicologico, e se necessario anche psichiatrico, per tutto il periodo della detenzione, soprattutto per quei detenuti identificati fin da subito come soggetti “a rischio”.

 

 

Riferimenti bibliografici

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