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L’intensa testimonianza di un uomo che ha avuto il coraggio di cambiare la sua vita. José Bou racconta la sua storia, intervistato da The Chronicle. Una storia che gli ha insegnato che cambiare è possibile e che questo messaggio deve arrivare ad altri detenuti ed ex detenuti come lui.

 

Dalla prigione all’aula universitaria

Seduto nella sua cella di prigione, José Bou non avrebbe mai pensato di trovarsi in piedi davanti a un’aula di studenti e di insegnare loro Criminal Justice. Bou ha conseguito la laurea in lingua inglese presso l’Università di Boston mentre scontava una pena di 12 anni in un carcere del Massachusetts per traffico di droga. Dopo la sua liberazione, nel 2011, Bou si è specializzato in giustizia penale e adesso a 42 anni insegna presso l’Holyoke Community College, nel Massachusetts, dove è nato.

Bou si considera fortunato. I programmi di laurea per detenuti non sono così diffusi. Nel 1994, il presidente Bill Clinton firmò una legge sulla criminalità che rendeva le persone nelle prigioni statali e federali non soggetti a sovvenzioni e borse di studio. Interrompendo i finanziamenti la legge ha annullato molti programmi esistenti nei college, dedicati ai detenuti. Da allora, molti sostenitori hanno cercato di riacquisire questi fondi ma sia i finanziamenti che il sostegno  per i detenuti che vogliono studiare sono ancora traballanti, nonostante le prove in favore dell’educazione e della formazione, fattori protettivi e capaci di bloccare il così detto fenomeno delle revolving door nella recidiva. Nel 2017 un’indagine condotta dal National Center for Education Statistics ha rilevato che la maggior parte delle persone incarcerate – il 58% – non aveva seguito alcun corso o lezione di formazione accademica durante il periodo della detenzione.

La droga

José ha viaggiato molto, sin da bambino, da Holyoke, Massachusetts, a Porto Rico, poi di nuovo in Massachusetts occidentale. Ha abbandonato la scuola superiore nei primi anni ’90. Il padre era single e aveva due lavori. “Ero solo un ragazzino iper difficile da gestire. Mi piaceva mettermi nei guai, non guai seri, ma saltare la scuola, fumare erba con gli amici. Ricordo che un giorno andai a scuola per un incontro genitori-insegnanti e dissero a mio padre: <<Suo figlio è stato assente 111 giorni>>. Non ne aveva idea. Mi ha dovuto trascinare per ottenere il GED (General Educational Development). Il liceo non era per me all’epoca, il che è ironico dato dove sono”

J. entra nel giro della droga sperimentando prima di tutto una forma di dipendenza. Vendere stupefacenti era un modo per poter comprare la droga. In seguito uno dei ragazzi che spacciava con lui ha cominciato ad allargare il giro alle droghe pesanti, passando dalla marijuana alla cocaina “All’improvviso siamo diventati rivenditori di cocaina. Questo ha portato un sacco di soldi e molte altre cosea 23 anni circa ho venduto la cocaina a un agente sotto copertura. È stato l’inizio della fine”.

Fuggire dallo stigma

 J. non voleva essere la persona stereotipata che esce di prigione, spesso rappresentata nei film e nell’immaginario collettivo con il pacchetto di sigarette nella manica, che cammina in giro con un chip sulla spalla. Non voleva necessariamente che la gente sapesse del suo trascorso in prigione e sentiva di aver scontato la sua pena e di non voler buttare la sua vita. “Mi sentivo come se potessi essere istruito, una volta che ho saputo che potevo farlo, è diventato divertente. Era come, <<Oh mio Dio, sono bravo in questo >>. Ho ottenuto un GPA 3.98. Non sono un genio, ho avuto solo un sacco di tempo in cella. C’era un corso di musica in cui il professore ci faceva ascoltare un movimento di qualche opera, e dovevi scrivere tutto ciò che sapevi. Ho finito per scrivere anche il nome del secondo cugino del compositore, l’insegnante né è rimasta sconvolta”.

Uscito di prigione, nel 2011, J. non riusciva a trovare un lavoro, laureato con ottimi voti non era stato preso neanche al McDonald’s. Alla fine, decide di collaborare con un’organizzazione che segue giovani ad alto rischio. Uno dei professori che lo aveva formato in prigione gestiva un master in Criminal Justice, così J. decide di fare domanda e viene preso. “Non pensavo di diventare un professore. Volevo solo avere un livello d’istruzione che fosse uguale a quello delle altre persone. Forse ho ancora lo stigma di essere un condannato, ma entrambi abbiamo la stessa educazione. Quando ho conseguito la laurea, ricordo che la sera nella mia cuccetta, scorrevo con le dita sopra i caratteri in rilievo e sull’incisione della pergamena. Semplicemente, mentre la toccavo, piangevo, dicendo a me stesso: “Questa è la prima cosa che ho davvero finito.”

 

Esperienze da raccontare

Durante le lezioni José parla delle sue esperienze personali, non nascondendo di essere stato in prigione. Questa decisione deriva dal fatto che J. crede fermamente di poter dare attraverso la sua esperienza ed il suo essere un docente “anomalo” la possibilità di comprendere aspetti che altrimenti i suoi studenti non potrebbero mai conoscere. “Non sto cercando di darmi una pacca sulla spalla. Ma so di essere uno strambo nel mondo accademico. Va bene. Voglio che gli studenti mi facciano domande come: Come vuol dire essere incarcerati? Come si fa a rientrare? Che cosa significa essere senzatetto?” Essere un professore secondo José non vuol dire solo aver studiato ma anche conoscere la realtà ed essere capace di comprenderla e viverla. Aspetti che quelli che lui definisce “topi da biblioteca” non sempre sanno tramettere ai discenti.

“Dico ai miei studenti che nessuno tollera di assumere qualcuno fuori di prigione oggi e queste persone sanno che c’è un problema con il sistema di correzione, che non stiamo sfornando criminali riabilitati, e a noi, come società, questo va bene. Se sappiamo che la reclusione e l’isolamento rendono le persone mentalmente instabili e più violente, se sappiamo che la mancanza di istruzione e di competenze comunicative è connessa alla violenza e agli atti criminali, perché non stiamo facendo tutto il possibile per minimizzare questi aspetti ? Quello che ho fatto, prendere una laurea, è molto raro, molto difficile, molto dispendioso in termini di tempo e atipico dell’esperienza della persona media in carcere. Non vorrei mai che leggendo la mia storia le persone pensassero  <<Wow, l’ha fatto, tutti possono farlo!>>. Quindi sto dicendo due cose allo stesso tempo. Non usare me come esempio di “Oh, tutti possono farlo perché José l’ha fatto”. L’intera storia è molto più lunga e molto più difficile. Ci è voluto molto per arrivare qui. Non penso di poterlo fare di nuovo. Mi piace pensare che potrei ma non è stato semplice e dall’altra parte penso che con abbastanza risorse, più persone potrebbero farlo. 

 

Riferimenti bibliografici

Pettit, E. (2019). He Spent 12 Years in Prison. Now He Teaches Criminal Justice to College Students.The Chronicle Interviews, 18.

 

Valeria Saladino - Fondatore di Psicotypo

Psicologo clinico, psicoterapia ad approccio breve strategico, specializzato in scienze criminologiche, forensi e psicologia giuridica. Fondatore e Presidente di “Psicotypo Associazione per l’Informazione e l’Aggiornamento in Psicologia”. Dottore di ricerca e psicologo esperto ex articolo 80 presso la Casa Circondariale di Cassino. Studiosa della psicologia della devianza, in particolare del fenomeno dell’istituzionalizzazione e delle dinamiche psicologiche che costituiscono quest’ultimo, ha partecipato e coordinato interventi di valutazione e trattamento all’interno degli Istituti Penitenziari. Si è occupata inoltre di nuove dipendenze, gestendo il Behavioral Addictions Research Team, Centro di ricerca sulle dipendenze comportamentali. Oltre alla ricerca svolge attività di tutoring e consulenza per chi è interessato al settore della ricerca e alla costruzione di elaborati di tesi a carattere sperimentale.