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Attualità

Intervista a un uomo di lettere nella Giornata Mondiale del Libro

23 Aprile 2018No Comments

Daniele Aluigi ha quarantasei anni e un percorso professionale che ha sempre condotto con passione e che gli permette di fare scelte diverse, non restando fermo nelle sicurezze acquisite. La sua storia conferma la centralità della famiglia per costruire adulti consapevoli e risolti. Nella vita seguire le proprie passioni è un’arma vincente, mantenendo sempre un occhio alla realtà per non cadere nell’illusione o in un eccessivo sconforto, che può portare troppo spesso ad abbandonare le proprie ambizioni. Fare un lavoro che piace diventa parte integrante di una vita, perché la rende un racconto uniforme che rende giustizia al suo protagonista.

È quanto Daniele ci racconterà in questa intervista.

 

Daniele Aluigi

Daniele Aluigi

Daniele, hai sempre lavorato nel mondo dell’editoria?

Mia madre mi raccontava sempre di me immerso nella lettura. Ha sempre detto che sembravo nato con un libro in mano. Un amore mai abbandonato… e oggi faccio l’editor. Ho iniziato l’università a Roma, poi sono andato un anno a Barcellona e per cinque anni a Milano, dove ho cominciato a lavorare nell’editoria. In seguito sono tornato di nuovo nella Capitale, dove ho continuato a lavorare sempre in campo editoriale e nel frattempo ho terminato gli studi. Ho dunque lavorato nelle due città italiane come caporedattore e questo in due case editrici entrambe specializzate in cultura dello spettacolo. Una grande fortuna che mi ha permesso di unire le mie due passioni: quella per i libri, che ho nel Dna, e quella per il teatro, anche questa maturata sin da piccolo, che mi vedeva propenso per le arti sceniche.

Un percorso che avevi dentro di te sin da piccolo?

Ho iniziato con la macchina da scrivere molto presto, quando ancora non si faceva tutto con i pc e gli smartphone. Ma non era solo la parola scritta ad attirare la mia curiosità. Ero affascinato dalla televisione, quella in bianco e nero senza telecomando; la mia attenzione era rivolta non tanto alla scena principale proiettata, quanto a quello che accadeva ai lati, a tutto quello che c’era dietro al prodotto finale. Un occhio critico, per comprendere al meglio come fosse fatto un romanzo o uno spettacolo; ero interessato a tutto il processo di creazione del prodotto. La struttura di un libro, di un programma televisivo o radiofonico, di un film, di un’opera d’arte ha sempre stimolato la mia curiosità e la mia fantasia.

In merito a queste passioni, ho avuto la fortuna di lavorare per Ubulibri, la casa editrice milanese fondata da Franco Quadri, grande critico di teatro, editore, organizzatore e direttore artistico di festival/scuole di teatro/premi, saggista, scrittore, traduttore, firma importante prima di “Sipario”, poi di “Panorama” ed infine de “la Repubblica”. Ho avuto l’onore di lavorare con un grande personaggio come lo è stato lui, oggi purtroppo scomparso. Ha dettato le linee guida per il teatro dagli anni sessanta e settanta in Italia e in Europa; ha tradotto autori del calibro di Samuel Beckett e di Jean Genet, tanto per intenderci. Con lui ho fatto la cara, vecchia gavetta, iniziando dalle piccole mansioni, permettendomi di lavorare con la parola e l’immagine insieme. È uno dei miei maestri.

Possiamo dire che le cose accadono?

Per un 70% accadono. Ma, a una percentuale così alta, ci si arriva solo dopo aver creato le basi per far capitare le cose, credendo in quello che facciamo anche quando la realtà rema contro. Oggi, ad esempio, dobbiamo fare i conti con il contesto storico in cui viviamo: anni di crisi economica, e non solo, per confrontarsi con una realtà dove la libertà di scegliere è condizionata fortemente dalla precarietà del lavoro. La casa editrice dove attualmente lavoro da ormai dieci anni, la Carocci editore (gruppo editoriale Carocci/il Mulino), una di quelle storiche, non è stata risparmiata e nel 2015 ha dovuto ridurre il personale ricorrendo a dolorosi licenziamenti, in cui sono stati tristemente coinvolti anche collaboratori di vecchia data.

Il mondo della cultura è uno dei più colpiti

Non è una scoperta di oggi e la crisi ha complicato tutto. Il mondo dell’editoria è uno dei più colpiti. Non è una scusante, non deve impedire la ricerca di ciò che sentiamo possa realizzare la nostra vita. Se ci si siede, se ci si impigrisce, se non ci si forma, la crisi ha vinto. Questo non significa combattere con i mulini a vento, vuol dire scovare la giusta dimensione tra quello che vogliamo e le avversità della vita. Magari non troveremo il lavoro perfetto per noi, ma quello che più ci si avvicina sicuramente.

E tu l’hai trovata in una realtà dove è difficile entrare…

Sai, questo è un mondo da sempre ritenuto per privilegiati, chi ci lavora si occupa di attività culturali a tutti i livelli, immerso in contesti che sicuramente non sono pesanti come lavorare in fabbrica. So di aver fatto un’osservazione scontata. Ma anche il lavoro di editor non è una passeggiata. Dietro c’è molto di più del “semplice” reperire testi validi. Anzitutto occorre una grande preprazione, serve uno studio costante. E una volta individuati i testi pubblicabili, tra le tante attività e in sintesi, si deve: presentarli al Direttore editoriale e al comitato; gestirne tutta la parte burocratico-amministrativa; fare da tramite con l’autore per le attività redazionali; intercettare il tipo di lettore a cui può interessare il volume e se la conseguente operazione porti dei margini di guadagno adeguati. Il lavoro di marketing è diventato più pressante e una casa editrice è un’impresa commerciale, dopotutto. Insomma non posso occuparmi solo del “lato bello” dell’editor, ossia leggere e valutare un’opera.

Possiamo dire che ti “sporchi le mani” con la cultura?

Sì. Principalmente mi occupo di saggistica universitaria. Un settore che mi porta a stretto contatto con quel mondo culturale tout court e, devo dire, che oggi persiste il luogo comune che la cultura sia un valore effimero. Viviamo un tempo dove conta soprattutto la conoscenza utilitaristica, per esercitare una professione. Una tendenza che porta a credere che la cultura umanistica non serva a nulla, quando invece è l’essenza di una persona. È quella che permette di decodificare meglio i fatti della vita, riesce a definire con precisione anche il contesto lavorativo, che non si può ridurre solo alla conoscenza specifica della professione. I rapporti umani, l’empatia, non la fanno comprendere i testi tecnici.

Hai rapporti diretti anche con gli studenti?

Certo, e ogni volta cerco di fargli comprendere l’importanza dell’approccio con un libro. Oggi si tende a sfornare laureati come se fossero prodotti. Prendono un testo in mano e sanno che devono leggere da tot pagina a tot pagina. Sanno esattamente le domande che gli saranno poste agli esami, e così vivono i testi come fossero libretti delle istruzioni, non apprendendo più il messaggio maggiormente importante, che il mondo accademico dovrebbe rilanciare con forza: “leggere” serve nella vita, non solo a scuola, non si deve farlo solo considerando un tornaconto materiale. Il libro non serve solo per superare un esame, i ragazzi devono tornare a concepire la bellezza della lettura e la sua funzione universale all’interno di un’intera esistenza.

La lettura forma dei professionisti più completi?

Non solo il tecnico, ma anche chi fa un lavoro come per esempio il giornalista scientifico. Può avere tutte le conoscenze specifiche che vuole, ma se non ha una base umanistica non sarà in grado di interagire completamente con i lettori o con chi ha di fronte. E poi anche chi lavora con la cultura, deve avere il coraggio di sporcarsi le mani, come detto in precedenza, con progetti indirizzati a una divulgazione più ampia e meno discriminante – altrimenti si continueranno ad erigere muri che condanneranno definitivamente la cultura umanistica – e con i risvolti più pratici del fare cultura, che poi è fare impresa. E non dimentichiamoci: la lettura aiuta a comprendere meglio se stessi e a orientarci nella vita. Una verità antica, ma ribadirla non è mai banale.

La lettura aiuta a non smettere di cercare quello per cui si è più portati…           

Già, e in momenti storici come questo deve essere l’esercizio più praticato. Tornare a rischiare, per esprimere se stessi è sempre un’arma vincente. Bisogna avere il coraggio di spostarsi, se la ricerca porta lontano da casa. Dal 1991 vivo a Roma, lontano dalla mia amata provincia. Là non stavo male, non mi mancava nulla, con la mia famiglia di origine non avevo nessun tipo di problema. Mia madre, che purtroppo non c’è più, e mio padre sono degli anni trenta, hanno conosciuto la guerra e la povertà. Una famiglia sana, che ha lavorato sodo per costruire una vita serena per me e mia sorella e sostenere le rispettive famiglie d’origine. L’affetto non è mai mancato, non c’era nulla che non andasse, ma avevo bisogno anche di altro.

Una necessità che ti ha proiettato in un contesto sociale diverso…

Indubbiamente, ma il mio modo di essere me l’hanno trasmesso i miei genitori. Le loro esperienze di povertà, di adolescenza vissuta nella seconda guerra mondiale, hanno forgiato dei caratteri che oggi sono introvabili. Dopo la fine del conflitto sono emigrati per oltre quindici anni in Svizzera. Poi sono rientrati e fanno parte di quella generazione che ha ricostruito l’Italia dalle macerie lasciate dalla guerra. Le loro storie, il loro modo di vedere la vita mi ha segnato profondamente: non può essere altrimenti, e quello che sono oggi lo devo anche a loro.

Viaggiare per trovare te stesso, e la via te l’hanno indicata i tuoi genitori?

Sì. Con i loro sacrifici mi hanno costruito una gabbia d’oro. Però sono state persone molto intelligenti, hanno capito di che pasta ero fatto e mi hanno lasciato andare, a 18 anni, a Roma, nonostante tutte le sicurezze che avrei conservato rimanendo a casa. In quel periodo ambivo anche a fare l’attore; ho provato anche a entrare sia all’“Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico” di Roma che alla “Scuola di teatro del Piccolo” di Milano, potendo così conoscere personalmente maestri del calibro di Mario Ferrero, Lorenzo Salveti, Giorgio Strehler e Luca Ronconi. Ho fatto esperienze in radio, televisione, cinema e teatro, ma sempre continuando a studiare. I miei genitori sono stati molto moderni, nonostante il loro vissuto fatto di dura realtà, supportando le mie scelte.

Daniele e suo padre

Daniele e suo padre

Una famiglia vicina è sempre un porto sicuro…

È vero. Ma alla fine devi essere sempre tu a creare gli strumenti necessari per capire cosa vuoi e che fare nella vita. Il risultato non è mai certo, ma se ti crei delle possibilità, qualcosa vicino a quello che sei, questo sì che arriva sempre. Oggi faccio l’editor, un lavoro bellissimo e faticoso, che mi rappresenta in modo molto ben definito come persona. Ho la possibilità di esprimere la mia passione.

 

Domani la seconda parte dell’intervista