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“L’uomo saggio vive finché deve, non finché può” – Seneca

 14 Dicembre 2017

Approvato dalla Camera il 20 aprile scorso, il disegno di legge sul biotestamento è passato il 14 Dicembre 2017 al Senato, con ben 180 Sì. Il biotestamento – o dichiarazione anticipata di trattamento – è un documento che esprime la volontà, espressa in piena condizione di lucidità mentale, di interrompere terapie e trattamenti, quando la prognosi è irreversibile. In breve, un esempio di volontà contenuta nel testamento biologico può essere quella di non ricorrere a trattamenti sanitari permanenti, come macchinari o strumenti per la respirazione artificiale.

Cosa prevede il biotestamento

La vita è un bene prezioso e irripetibile. Arriva un momento, però, in cui un paziente malato smette di considerare la vita come un regalo, considerandola una lotta quotidiana per la sopravvivenza. E’ sempre difficile accettare che qualcuno si lasci andare così, senza provarle tutte. Per questo in Italia, fino ad oggi, non si è mai parlato di biotestamento o suicidio assistito; la morte è sempre stata accettata solo se per cause naturali. Il recente caso di Fabio Antoniani, Più conosciuto come Dj Fabo ha sollevato un’accesa discussione sulla presa di coscienza di modificare le leggi sul biotestamento. Dj Fabo, così come Giovanni Nuvoli, Piergiorgio Welby o Eluana Englaro, sono stati i protagonisti di questo dibattito che ha portato, finalmente, a redigere la legge sul biotestamento.

La legge prevede:

  • Consenso informato: la legge tutela il diritto alla vita, alla salute e alla dignità e non permette che i trattamenti vengano iniziati o proseguiti senza il consenso libero ed informato della persona. Ogni persona, come essere umano dignitoso, ha il diritto di essere a conoscenza sul proprio stato di salute, sulla prognosi e i possibili rischi.
  • Possibile stop a nutrizione e idratazione artificiale: ogni persona, maggiorenne, ha il diritto di rifiutare qualsiasi tipo di terapia. Nutrizione e idratazione vengono paragonati a trattamenti sanitari e di conseguenza sarà possibile rifiutare la loro somministrazione
  • Abbandono delle cure e obiezione di coscienza per i medici: il paziente può rifiutare le cure. Ai medici, però, è concessa l’obiezione di coscienza. Di fronte alla richiesta di un malato di porre fine ai trattamenti a cui è sottoposto, il medico può non avere l’obbligo professionale di attuare le volontà del paziente. Il malato potrà comunque rivolgersi ad un altro medico della struttura ospedaliera in cui si trova.
  • Divieto di accanimento terapeutico e sedazione profonda: Si può ora vietare l’accanimento terapeutico in caso di malattia terminale. In presenza di sofferenze importanti, è possibile ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione alla terapia del dolore. Il medico deve quindi adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente anche in caso di rifiuto del trattamento sanitario.
  • Sostegno psicologico: nel caso in cui il paziente esprima la volontà di non continuare trattamenti terapeutici, il medico è tenuto a prospettare sia al paziente che ai suoi familiari le conseguenze di tale decisione e le possibili azioni di sostegno, anche di una terapia psicologica.

La redazione del biotestamento deve essere in forma scritta, datata e sottoscritta davanti ad un pubblico ufficiale, un medico, o dei testimoni. Può essere revocato e rinnovato in ogni momento.

Vivere la fine in modo consapevole: perché decidiamo di spegnere la luce

Prima di approfondire il lato psicologico di tale scelta, è giusto ed opportuno fare alcune precisazioni terminologiche sui processi che implicano il fine vita:

  • Suicidio assistito: è l’aiuto dal punto di vista medico ed informativo in favore di un soggetto che ha deciso di ricorrere al suicidio ma non è nelle capacità fisiche di poterlo fare in maniera autonoma: è però il soggetto stesso a somministrarsi, autonomamente, il farmaco che procurerà la morte
  • Eutanasia: processo per il quale si procura in maniera intenzionale la morte di una persona, date le condizioni di malattia terminale o sofferenze insopportabili in cui il malato si trova.
  • Testamento biologico: volontà di una persona in stato di piena capacità di intendere e di volere rispetto all’interruzione delle terapie a cui si è sottoposti.

Le motivazioni che spingono un malato a “spegnere la luce” , in tutti e 3 i casi, sono molte: la perdita della speranza, il dolore, il rifiuto di non poter più avere un pieno controllo sulla propria vita, il sentirsi un peso per gli altri  e quindi influenzare il tenore di vita dei caregiver dei malati a lungo termine. Le motivazioni fondamentali riguardano il dolore insopportabile e la perdita di controllo sulla propria vita; non si decide di porre fine alla propria vita solo per il dolore fisico. Molto spesso chi prende questa decisione lo fa per la sofferenza psicologica legata ad una serie di perdite fondamentali, l’integrità del corpo in primis. Dietro alla sofferenza dell’ammalato c’è anche la sofferenza di chi si occupa di lui: medici, infermieri, e soprattutto i familiari. Molto spesso questa sofferenza, però, viene repressa e sfugge al controllo di chi ne è protagonista, il quale la proietta automaticamente sull’altro: è l’ammalato che soffre, è per lui che sarebbe necessario che tutto vada per il meglio.

Fondamentale è non rimuovere questo stato di sofferenza: bisogna invece accettarla ed elaborarla al fine di poter trovare risposte adeguate, sia sul piano affettivo che terapeutico, nei confronti di chi ci chiede aiuto. Nel rapporto con chi muore è automatico vedere riflessa la nostra stessa morte: facciamo i conti anche noi con le nostre fragilità e paure. Per questo la sofferenza che vediamo nell’altro ci appare inaccettabile e insopportabile.

Se chi è accanto all’ammalato non ha accettato e interiorizzato i propri vissuti di sofferenza il rischio è che il suo comportamento, i suoi gesti, e le sue parole possano influenzare ancora di più la decisione di ricorrere al fine vita. La reazione di chi è accanto all’ammalato è, infatti, una conferma o una smentita della percezione di se stessi come un individuo privo ormai di dignità e di valore, che costituisce solo un peso per gli altri. Solo quando la sofferenza dell’ammalato e di chi si occupa di lui non è negata, ma espressa nei modi corretti, sarà possibile restituire un’immagine integra e rassicurante a chi vive questo momento di dolore insopportabile. I motivi per cui sperare in un miglioramento sono molti e possono variare. Bisogna capire, però, quando è arrivato il momento di poter permettere a chi soffre, di tornare ad essere liberi come prima. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per trattenere e un per lasciar andare chi soffre, un tempo per viaggiare e un tempo per poter ritornare.

 

 

Riferimenti bibliografici

Veronesi U. Il diritto di morire (2005). Milano: Mondadori