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Nell’intervista che segue con la Dottoressa Marina Benemeglio, conosceremo meglio gli obiettivi dell’Associazione Le Tele di Penelope, che si prefigge di aiutare chi cerca di inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro. Un mondo che, in questi ultimi venti anni, ha conosciuto stravolgimenti epocali. Non solo per via dell’ultima grave crisi economica, ma anche grazie alle nuove tecnologie. E proprio nel contesto dei cambiamenti in atto l’Associazione tenta di far comprendere alle persone le nuove regole, i problemi, le opportunità di un universo lavorativo molto più flessibile e precario. L’aiuto offerto si concretizza nella stesura di curriculum adeguati e nella presa di coscienza del concetto di flessibilità richiesto dalle aziende. Oltre a questo si offre la possibilità di un percorso personale per riprendere in mano la consapevolezza delle proprie capacità; perché investire su se stessi e i propri desideri è una delle chiavi per lavorare in futuro.

 

Dottoressa Benemeglio, come nasce l’idea di fondare un’associazione che si prefigge lo scopo di aiutare le persone ad entrare, o rientrare, nel mondo del lavoro?

Siamo nate nel 2015, da una mia idea e della Dottoressa Francesca Di Niccola. Ci siamo da subito orientate verso il benessere psicofisico correlato al lavoro, questa era la nostra priorità. Però nessuna della due aveva esperienze in merito alle associazioni no-profit, quindi ci siamo prima specializzate. Personalmente, ho conseguito un master in risorse umane, ho fatto formazione sull’orientamento al lavoro e altri corsi inerenti a questo indirizzo. Inizialmente la nostra attività di counseling era dedicata ai precari e ai disoccupati. Durante i colloqui, però, abbiamo preso coscienza di una realtà molto più ampia: molte persone si accostavano a noi per la perdita del lavoro, e l’esigenza di un reintegro, e anche per questioni di stress correlato, per una serie di problematiche legate all’interno del posto di lavoro.

 

Casi di mobbing?

Casi specifici di mobbing non li trattiamo, perché c’è la necessita di un’equipe di professionisti, tra cui gli avvocati. C’è bisogno di perizie che certifichino la presenza di vessazioni fisiche o psichiche. In presenza di elementi che inducano al sospetto di mobbing, ci limitiamo ad una segnalazione alle associazioni preposte.

 

Con la vostra attività di consulenza avete avvertito, con forza, una serie di problematiche, della persona legate al mondo del lavoro.

Certo e in merito a questa presa di coscienza, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo perseguito un indirizzo di sostegno nella ricerca e gestione del lavoro. Prima ho voluto formarmi sull’attuale realtà del mercato del lavoro; per questo ho conseguito un master alla John Cabot University, con cui abbiamo avviato una collaborazione, i cui dettagli sono presenti sul sito dell’associazione, www.leteledipenelope.it. Sono una realtà statunitense presente sul nostro territorio; cercano di sposare la propria visione, e cultura, del mondo del lavoro con quella italiana. A mio parere ci stanno riuscendo molto bene, anche se vengono a scontrarsi con fenomeni anomali presenti solo nel nostro Paese.

 

Ci puoi fare un esempio di anomalia italiana?

Lo stagista. Soprattutto i giovani, in Italia, rischiano di passare nella condizione di stagisti per anni. Nel nostro Paese si parla di periodi di stage per persone di 30/35 anni, una cosa inaccettabile. Un giovane appena laureato, che ha conseguito un master, può fare un periodo di apprendistato di massimo sei mesi, come previsto in alcune convenzioni che propone la John Cabot, poi si deve essere assunti per continuare nella collaborazione. Un praticantato deve introdurre nel mondo del lavoro, non può protrarsi negli anni, costringendo dei professionisti ad essere trattati, in particolare dal punto di vista economico, come eterne matricole. Ho colleghi di oltre i trent’anni che continuano a lavorare con contratti da stagista, di sei mesi in sei mesi.

 

In Italia ha preso piede la cultura del precariato, ma c’è spazio per cambiare lavoro più volte nella vita? E come la vivono le persone questa nuova condizione?

Ci sono delle realtà dove questo è possibile, ma sono una minoranza. Conosco colleghi che hanno raggiunto il contratto a tempo indeterminato in età avanzata, ottenuto con un percorso lavorativo a volte destabilizzante a livello psicologico. La realtà è transgenerazionale, ormai riguarda tutti, non solo i giovani che si affacciano per la prima volta nel mondo del lavoro. Il problema del precariato, ad oggi, vede le nuove generazioni possedere la forma mentis per affrontare la vita lavorativa con questa dinamica. Ciò non vuol dire che non soffrano questa condizione, ma la affrontano con più determinazione e presa di coscienza. Per le generazioni più anziane, invece, è molto difficile, perché provengono da un mondo dove il posto fisso era l’obiettivo unico e non c’era la crisi economica che ha stravolto tutte le regole. I giovani, è banale dirlo, hanno più spirito di adattamento, inoltre hanno la famiglia di origine come ammortizzatore sociale, sempre che anche i loro genitori non siano stati, a loro volta, catapultati nel precariato. Oggi rimanere a casa di mamma e papà fino a trentacinque anni, e oltre, non è più insolito.

 

Sono i trentenni ei quarantenni a pagare lo scotto più alto di questa crisi?

Assolutamente sì. Hanno subito in pieno gli effetti iniziali, perdendo il lavoro o subendo grossi tagli. E continueranno a pagare anche in futuro, con le nuove forme di contratti e delocalizzazioni delle aziende. Oggi è richiesta una mobilità che per chi ha già una vita formata, parlo di famiglia e rete sociale, risulta devastante.

 

E quali sono le conseguenze?

Nelle realtà più disagiate la persona si adegua alle nuove esigenze, altrimenti rinuncia al lavoro e si arrangia con l’attività in nero, l’aiuto degli anziani genitori e degli eventuali ammortizzatori sociali di cui si ha diritto. Insomma ci si affida all’arte di arrangiarsi. Un altro fenomeno che ha preso forma è quello dei dipendenti con la partita IVA. Porto sempre l’esempio di realtà che conosco bene, in cui professionisti laureati che si occupano a tempo pieno di varie mansioni, per conto di un’azienda lavorano a partita IVA, ma sono trattati e pagati come dipendenti, legati ad orari ed esigenze logistiche dettate dall’azienda.

 

Cosa ne pensi delle società interinali?

Collaboro come consulente con alcune di queste realtà, che oggi sono chiamate Agenzie per il Lavoro (APL). Prima di collaborare con loro, nutrivo un’opinione ben diversa. Per quello che riguarda l’agenzia dove più spesso lavoro, posso affermare che la meritocrazia esiste. Ci sono dirigenti che hanno iniziato dal call-center, per intenderci. Le APL danno buone opportunità di lavoro, da consulente ho conosciuto persone che hanno a cuore questo impegno e si preoccupano di trovare le soluzioni migliori per le persone che si affidano a questa tipologia di ricerca dell’impiego. Chiaramente hanno tutto l’interesse a mettere il soggetto giusto al posto giusto, per mantenere un ottimo rapporto con le Aziende che si affidano a loro per la ricerca di personale. Il lavoratore, alla fine, è visto un po’ come il prodotto da vendere e ottimizzarlo è nell’interesse di tutti. Capisco che posta così la questione è poco piacevole, però alla fine le aziende sono fatte di persone e in molti casi ho trovato responsabili che sanno dare un occhio sia all’interesse dell’azienda che al lavoratore. La APL, nel moderno contesto lavorativo, sono un buono strumento per la ricerca di un impiego.

 

Tu, come consulente, ti occupi delle competenze del lavoratore…

Esattamente, mi muovo in quest’ambito e mi occupo principalmente di Soft Skills, le cosiddette competenze trasversali e relazionali, che si differenziano dalle Hard Skills, le competenze più propriamente tecniche per svolgere un determinato lavoro; in generale si tratta di aiutare la persona a sviluppare in modo costruttivo le proprie Life Skills, le competenze per la vita, un insieme di capacità umane acquisite con la propria esperienza di vita. Il problema maggiore, per quanto riguarda soprattutto le Soft Skills, con cui mi scontro quotidianamente, è che molti selezionatori delle Agenzie provengono dal settore commerciale, quindi con una mentalità proiettata principalmente sul risultato finale, senza tenere conto delle sfumature, che in un soggetto sono date proprio dalle Soft Skills, e se ben sfruttate contribuiscono a performance qualitativamente superiori e, di conseguenza, anche in termini di risultato.

 

Una mentalità, quella del commerciale, che mal si sposa con la filosofia delle competenze a 360 gradi…

Non è facile, sicuramente. Però nell’ambito delle politiche attive, dove si lavora sull’orientamento al lavoro, ho visto una competenza a tutto tondo partendo dagli operatori, alla rete amministrativa e ai dirigenti, che lavorano molto sulle famose capacità trasversali di una persona, e permette di costruire un curriculum realistico ed efficace. Devo anche dire, per quanto riguarda le aziende, che si fa un gran parlare delle capacità trasversali. Fanno veri e propri proclami sulla necessità delle Soft Skills, ma la strada da fare è ancora molto lunga, per ora rimangono solo belle parole. Spero che in futuro si riesca a dare il giusto valore a queste capacità, perché ad oggi le aziende, in Italia, guardano solo alle Hard Skills, ignorando totalmente il resto. Le APL in questo sono molto efficienti, chiaramente le competenze specifiche sono fondamentali, ma riescono a implementare il curriculum anche con le altre abilità, in modo da rendere un quadro generale molto chiaro, evidenziando le potenzialità di una persona non esclusivamente dal lato tecnico.

 

Quindi confermi l’importanza del lato umanistico nella cultura professionale di un individuo?

Certo, non basta la sola capacità tecnica per creare un professionista e buon ambiente di lavoro. Servono capacità relazionali, di comprensione del prossimo, di lettura delle dinamiche all’interno dell’ufficio, laboratorio o negozio che sia. Indubbiamente la tecnologia avanzata di questi anni ha maggiormente posto in risalto la necessità di competenze tecniche. In molte piccole e medie imprese italiane latita l’impegno nella valorizzazione delle risorse umane, restando fossilizzate solo sul tecnicismo. Le competenze tecniche sono fondamentali, è fuor di dubbio, ma devono essere implementate con le doti umanistiche per creare un buon livello di empatia; essere in grado di vedere oltre le proprie mansioni; uscire dall’incapacità di comunicare a più livelli, non solo quello tecnico. Tutte questioni, che se non sono affrontate, rendono molti contesti lavorativi alienanti

 

Non è solo uno stipendio a rendere serena una persona sul posto di lavoro.

La maggior parte delle soddisfazioni non provengono dallo stipendio, che premia le doti tecniche. Diventa centrale, allora, il discorso dei benefit, che possono rendere un posto di lavoro più appetibile, gradevole ed efficiente. Le aziende americane sono molto più avanti di noi, per esempio investono su benefit inerenti alle convenzioni sanitarie, che comprendono il lavoratore e i suoi familiari. Le persone preferiscono che i figli abbiano l’assicurazione per la cura dei denti, piuttosto che avere un bonus periodico di cinquecento dollari. All’interno del tecnicismo si può inserire l’aspetto relazionale. Un ambito che spetta alle Risorse Umane, settore dove in Italia, ribadisco, si investe poco e male.

 

Leggi la seconda parte dell’intervista