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Adolescenza borderline

L’autolesionismo caratterizza a volte l’adolescenza. Questo fenomeno è riscontrabile anche nella connotazione borderline tipica della condizione adolescenziale. La dimensione borderline si caratterizza per vulnerabilità biologica, culturale e antropologica. Nell’autolesionismo, possibile espressione borderline di un individuo, può essere associato anche un disturbo del comportamento alimentare. Vi sono fattori antropologici che agiscono direttamente sulla fase adolescenziale di un individuo. Tali fattori ci dicono molte cose sull’interazione determinata dal binomio “vulnerabilità-ambiente”. Ad esempio possiamo osservare come cambia tale espressività patologica, e come si manifesta nel mondo in cui viviamo.

L’autolesionismo in adolescenza esprime una chiara situazione di allarme ed è al contempo una possibile chiave per decrittare un incastro. Innanzitutto, aleggia il rischio suicidario, anche se questa modalità patologica non è psicotica, né tantomeno schizofrenica. Un paziente affetto da questa patologia potrebbe aver bisogno di vedere il suo sangue scorrere sulla sua pelle. È il caso per esempio degli ‘emo’ e dei ‘dark’. Il loro star male non ha a che fare con la moda, e nemmeno con la psicopatologia. La funzione di questo comportamento è quello di lanciare un messaggio paradossale, che può essere esposto in terapia. Essi vogliono essere segretamente comunicativi ed è sempre presente, da qualche parte, un interlocutore segreto.

Un esempio emblematico, in letteratura, è rappresentato dalla poetessa e scrittrice americana Sylvia Plath (1932-1963), morta suicida a trent’anni. Nelle sue poesie è presente quella dimensione che anticipa significativamente l’argomento dell’autolesionismo, in particolare il componimento intitolato: “Lady Lazarus”. Il paziente autolesionista deve trovare un interlocutore ‘speciale’, il quale non interpreta ciò che gli viene narrato. L’antropologo e sociologo francese Le Breton, dell’Università di Strasburgo, si è occupato molto di autolesionismo. Per Le Breton (2005), coloro che si procurano tagli o ferite lo fanno per comunicare e sentire che loro esistono. Queste lesioni esprimono il loro profondo malessere nel quale si dibattono. È un modo per cambiare la realtà, un andare oltre nonostante un’esistenza portata agli estremi.

 

Studi sull’autolesionismo

Con l’inizio del nuovo secolo, si comincia a parlare di condotte autolesioniste o autolesive. Queste condotte vengono elicitate essenzialmente da coloro che sono ristretti negli istituti di pena, e da quelli più giovani ristretti negli istituti correzionali (Ross e McKay, 1979). Si giunge così a farsi del male sul proprio corpo, considerandolo come un agito volto alla propria autoaffermazione. Emerge anche il fenomeno del ‘contagio’: l’imitazione da parte degli adolescenti di comportamenti rischiosi. In psicopatologia è possibile diagnosticare, associato all’atto autolesionistico, un disturbo alimentare: bulimia o anoressia. Il paziente dice: “Io sono anoressico e non ho l’anoressia”, esprimendo un’appartenenza, e non una patologia. L’intento è quello di fondare un linguaggio comune. In tal modo, si estrapolerà da questo linguaggio una classificazione volta ad inquadrare una casistica. Vi è l’intenzionalità di porre fine alla propria esistenza? Il quarantenne ‘autolesionista’ esprime un fenomeno residuale, ma dopo i 25 anni esso tende allo 0.

Presso l’Università di Oxford (2006) sono stati rilevati, su un campione di 6000 giovani di 15 e 16 anni, importanti dati statistici che hanno illuminato una realtà. L’11% delle ragazze e il 3% dei ragazzi avevano sperimentato sul proprio corpo almeno un agito autolesionistico, prendendo in considerazione l’ultimo anno. ‘Solo’ per il 13% di essi è stata necessaria, per le conseguenze rilevate, una visita medica. Secondo un altro studio (Cerutti et al., 2005), tra gli adolescenti e i giovani adulti è primaria la morte per incidentosi. Tale causa rappresenta la ridotta capacità di prevedere le conseguenze relative alla messa in atto di un certo comportamento. Segue poi la morte per suicidio. Nelle famiglie ‘normali’ la comunicazione emotiva carente comporta elementi invalidanti o incapacità di rispecchiamento ed espressione. Sono famiglie che rivolgono verso il proprio figlio un alto livello di perfezionismo, alta aspirazione e attesa di esigenze.

 

Altri studi e clinica

La ricerca identitaria si esplica più sensibilmente attraverso l’interazione con i pari. Rilevante è anche l’iperconnessione, o connessione abituale, con gli strumenti di comunicazione che oggi si hanno a disposizione. É possibile osservare direttamente il configurarsi del giudizio, del confronto, dell’accettazione e dell’appartenenza (Ferrara, 2008). La marchiatura poi rappresenta già un segno di appartenenza. In tal senso, si viene ad esplicitare, e non solo simbolicamente, il seguente rapporto duale: pelle/corpo – privato/pubblico. L’autolesionismo può essere dovuto all’insorgere di disturbi alimentari, all’emergere del compiacimento attraverso il proselitismo e ancora ad altri eventi concomitanti.

Menninger (1938), differenzia l’automutilazione, modalità disfunzionale del prendersi cura di sé, dal suicidio, forma autodistruttiva acuta e totale. Sia Pattison e Kahn (1983), che Favazza e Rosenthal (1990), definiscono l’autolesionismo come un comportamento autoriferito: self-injurious behavior. Le caratteristiche che connotano il fenomeno sono: – comportamento autolesivo anche oltre l’agito; – autoidentificazione; – attivazione emozionale anche in momenti positivi; – agito distinto dal comportamento suicidario. Altro aspetto è il rapporto con il dolore, spesso mal gestito.

 

Clinica e autolesionismo

La prevalenza del disturbo si manifesta tra i 12 e i 15 anni. Viene considerato come disturbo borderline di personalità, e più precisamente: patologia borderline di tipo restrittivo. Essa tende a svilupparsi nella fase adolescenziale, quando si soffre la distanza con l’adulto che detiene il potere. La diagnosi ci permette di acquisire importanti informazioni quando si rilevano più interventi autolesivi sul proprio corpo (Klonsky, 2007). Con la MAST, Multi-Attitude Suicide Tendency Scale (Orbach et al., 1991), si può valutare l’atteggiamento verso la vita e la morte. Si possono valutare anche le differenze tra autolesionismo e tentativi di suicidio. Il pensiero, o l’atteggiamento assunto verso la morte, si invera anche per i suoi profondi significati simbolici. Il confine con l’agito o l’intenzionalità suicidaria è dato dalla disregolazione comportamentale (Nock et al., 2006; Nock e Kessler, 2006). Ci troviamo di fronte ad una sintomatologia caratterizzata da anedonia che può essere connotata depressivamente. In ambito psichiatrico rappresenta un appiattimento emotivo totale o parziale. La persona non riesce ad appagarsi o a trovare un interesse verso attività piacevoli, come il sesso,  l’interazione sociale o il mangiare.

Il senso di vuoto o una condizione particolarmente stressante possono condurre all’autolesionismo. La maggior parte di coloro che compiono agiti autolesionistici non hanno una particolare alterazione della loro coscienza. Gli strumenti dimensionali maggiormente utilizzati descrivono dei profili relativi a disturbi di personalità utilizzando i tratti. Essi sono essenzialmente due: – NSSI, Non Suicidal Self-Injury; – SBD, Suicidal Behavior Disorder. Nell’NSSI vi è espressività dissociativa e perfezionistica, eccentricità e tendenza verso esperienze insolite. Nell’SBD vi è anedonia, discontrollo, sottomissione, disinibizione e bassa autostima. L’affettività si connotata negativamente, dalla quale può insorgere ansia e labilità emotiva e ostilità. Tutto ciò può condurre ad un autolesionismo severo che va riconosciuto e arginato.

Scritto da Roberto Martino, dottore in psicologia applicata, clinica e della salute.

 

Riferimenti bibliografici

Favazza, A.R., & Rosenthal, R.J. (1990). Varieties of Pathological Self-mutilation. Behav Neurol. 3(2):77-85.   DOI: 103233/BEN-1990-3202

Ferrara, M. (2008). Scritto sul corpo: condotte autolesive in adolescenza. Adolescenza e psicoanalisi, Anno III n° 2.

Klonsky, E.D. (2007). The functions of deliberate self-injury: a review of the evidence. Clin Psychol Rev. Mar; 27(2):226-39. Epub 2006 Oct 2.   DOI: 10.1016/j.cpr.2006.008.02

Le Breton, D. (2005). La pelle e la traccia. Le ferite del sé. Milano: Meltemi.

Manca, M., Cerutti, & R., Presaghi, F. (2005). Sviluppo e validazione di un questionario per la rilevazione della Sindrome da Autolesionismo Ripetitivo. Atti del VI Congresso Nazionale della Associazione Italiana di Psicologia (AIP) – Sezione di Psicologia Clinica.

Menninger, K.A. (1938). Man Against Himself. New York: Harcourt, Brace e World.

Nock, M.K., Joiner, T.E. Jr, Gordon, K.H., Lloyd-Richardson, E., & Prinstein, M.J. (2006). Non-suicidal self-injury among adolescents: diagnostic correlates and relation to suicide attemps. Psychiatry Res. Sep 30; 144(1):65-72. Epub 2006 Aug 2.   DOI: 10.1016/j.psychres.2006.05.010

Nock, M.K., & Kessler, R.C. (2006). Prevalence of and risk factors for suicide attemps versus suicide gestures: analysis of the National Comorbidity Survey. J. Abnorm. Psychol. Aug; 115(3):616-23.   DOI: 10.1037/0021-843x.115.3.616

Pattison, EM, & Kahn J. (1983). The deliberate self-harm syndrome. Am J Psychiatry, Jul; 140(7):867-72.   DOI: 10.1176/ajp.140.7.867

Ross, R.R., & McKay, H.B. (1979). Self-mutilation. Lexington Books.