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Attualità

Può la paura del giudizio altrui far decidere di morire?

La paura del giudizio può uccidere

Una studentessa di 26 anni si è suicidata lanciandosi nel vuoto dal tetto dell’ateneo di Napoli. All’interno dell’ Università erano presenti amici, colleghi e familiari della ragazza. Erano andati per festeggiare con lei la laurea. Ma la verità era un’altra, la ragazza aveva il percorso di studi incompleto, infatti non aveva sostenuto tutti gli esami.

Si dice che l’uomo abbia più paura del giudizio altrui che della morte. Forse potrebbe essere stato così anche per la giovane di Isernia. Studiava fuorisede per laurearsi alla Facoltà di Scienze Naturali di Monte Sant’Angelo a Napoli. La ragazza, verso l’ora di pranzo, è uscita dalle aule della sede universitaria, allontanandosi per raggiungere il tetto della struttura. I corridoi della Facoltà erano affollati da parenti e amici degli studenti che dovevano sostenere la tesi di laurea. Erano presenti anche i suoi cari, ai quali la ventiseienne avrebbe affermato che quel giorno si sarebbe laureata, mentendo in tal proposito poiché non aveva completato il ciclo di esami. Infatti, il suo nome non compariva nell’elenco dei laureandi del 9 aprile.

L’incapacità di sostenere le difficoltà nei giovani

Mentre molti ragazzi sostenevano le sedute di laurea dei vari corsi di studio triennali e magistrali, la ragazza, una volta sul tetto, si è gettata nel vuoto. Gli investigatori stanno indagando sull’accaduto e hanno messo al vaglio la carriera accademica della giovane studentessa. Si può solo immaginare lo sconcerto tra i ragazzi e i familiari presenti in Facoltà. Un gesto estremo, l’ennesimo, di una giovane vita incapace di affrontare il disagio interiore provocati da una situazione avversa. Oggi i ragazzi, che si è sempre pronti a descrivere come menti molto più sveglie, capaci di incamerare nozioni velocemente, rispetto alle precedenti, mostrano una fragilità sconcertante davanti alle normali difficoltà che la vita presenta loro.

La vita reale fa più paura della morte

Il pedagogista Diego Novara, in un’intervista pubblicata sul sito www.vita.it, parla di generazioni, di giovani e adolescenti, particolarmente fragili da un punto di vista emotivo. Una recente ricerca da lui condotta ha individuato una problematica che ha ribattezzato “carenza conflittuale”. Con questo vuol spiegare come esista una gigantesca difficoltà nella gestione delle situazioni critiche, di contrarietà, di contrasto. E ciò non avviene solo nei confronti degli adulti, ma si palesa anche nel confronto con i coetanei. Rifuggono la frustrazione, rifugiandosi nell’isolamento e quando questo non basta si assiste a gesti di autolesionismo, di rabbia incontrollata o atti estremi come i sempre più frequenti casi di suicidio stanno a dimostrare.

Contesti virtuali ed eccessiva protezione genitoriale

Novara punta il dito contro il fatto che i ragazzi delle ultime generazioni crescono in contesti eccezionalmente virtuali, vivendo in un mondo fatto di videogiochi e relazioni sui social network. Questo comporta indici di socializzazione molto bassi. Inoltre, sono coinvolti troppo pesantemente nella vita degli adulti, i quali li proteggono in maniera esagerata, sottoponendoli a tali stati di apprensione da risultare destabilizzanti per una normale crescita. Troviamo i giovani sempre più incapaci ad affrontare le crisi e gli ostacoli che la vita mette davanti alle persone ogni giorno.

Un problema educativo non può diventare giudiziario

Il professor Novara evidenzia come la problematica educativa ha dato vita a forme distorte di risoluzione, perdendo in forza e confusa nei confini. Problemi come il bullismo e la droga sono questioni letteralmente educative, dove l’immaturità tipica degli adolescenti, che commettono certi atti, deve essere trattata con percorsi educativi nell’ambito familiare e scolastico, non all’interno di un’aula di un tribunale. La società sbaglia di grosso se crede di poter risolvere certi problemi con gli psicofarmaci o con i procedimenti penali. Inoltre, gli adulti non hanno la stesso grado di percezione di un problema che ha un giovane. Non di rado i genitori vedono dei serpenti dove ci sono solo dei lombrichi. La politica, infine, che vuole combattere con il pugno duro le condotte giovanili sbagliate, è il segnale di una tardiva presa di coscienza del problema. E questo porta i giovani a crescere pieni di insicurezze, timorosi nell’affrontare la vita, rischiando di diventare adulti mai completamente risolti.

Le aspettative genitoriali

I giovani incapaci a gestire la quotidianità, sono solo un lato della medaglia. Una ricerca, condotta dalla University of Reading in Gran Bretagna, ha valutato i dati ricavati tramite l’analisi di 3530 studenti e dei loro genitori, dal 2002 al 2007. Ai giovani sono stati sottoposti alcuni test di matematica. Mentre i ragazzi svolgevano il compito, i ricercatori domandavano alle madri e ai padri quanto fossero fiduciosi della buona riuscita del test da parte del figlio. Così veniva misurata la loro aspettativa. I genitori con aspettative alte, ma concretamente realizzabili, circa la buona riuscita dei propri figli hanno ottenuto un benefico effetto sui quest’ultimi, risolvendo gran parte dei quiz sottoposti. Al contrario, i genitori con aspettative eccessive, fuori dal comune, hanno fatto riscontrare nei figli grosse difficoltà nel trovare le giuste soluzioni ai test matematici. L’ideatore dello studio, Kou Murayama, ha dichiarato: “Le ambizioni eccessive delle mamme e dei papà possono essere velenose”. Secondo lo studioso sarebbe più adeguato “trovare la giusta sfumatura” per esercitare un’adeguata pressione, nè troppo alta né troppo bassa, sui figli.

La comunicazione rimane il problema più grande

Figli emotivamente fragili, genitori che proiettano sui figli ambizioni che non rispecchiano il loro modo di essere. I ragazzi vengono cresciuti con i migliori propositi, ma con mezzi e sistemi educativi sbagliati. Troppo protetti, non hanno mai un vero distacco dalle figure di riferimento, e quando queste non sono presenti nei momenti di difficoltà si sentono perduti. Sin da piccoli sono educati come fossero dei piccoli prodigi e quando le prime esperienze di vita gli dimostrano il contrario, le certezze crollano come castelli di carta. L’adulto deve riappropriarsi di un ruolo di mediazione tra quello che è il mondo, quello che è il proprio contesto familiare e quello che il figlio deve capire su cosa essere e diventare da grande. La figura paterna, in special modo, deve riappropriarsi di un ruolo “forte”, il padre deve tornare a rappresentare con forza il distacco dal guscio familiare per i figli, non avallare la lunga permanenza in uno stato adolescenziale. Lacan intendeva anche questa deriva con “l’evaporazione del padre”, un genitore non più in grado di portare il figlio fuori nel mondo, indebolito in nome di una pedagogia troppo materna.

 

Scritto da Davide Testa, blogger de La Gomma Del Ponte