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Dipendenze

Workaholism, se il lavoro è dipendenza | Parte I

Il workaholism

Il termine dipendenza deriva dal verbo latino “dependere”, il cui significato è “essere appeso, essere legato a qualcosa”: il soggetto risulta essere appunto appeso, o legato, alla sostanza di cui fa uso, tanto da non essere in grado di interrompere il comportamento di assunzione, né di decidere quando o quanto far uso della sostanza stessa. Questi comportamenti, però, possono essere applicati anche per le cosiddette “nuove dipendenze”, che riguardano un comportamento o un’attività lecita o socialmente accettata come lavorare, fare acquisti, navigare su internet, giocare ecc, ma portati ad un eccesso. Negli ultimi anni si è assistito ad un’enorme diffusione di queste dipendenze comportamentali, tanto da suscitare l’interesse della letteratura scientifica e richiedere la creazione e disponibilità di metodi di cura e terapia efficaci.

La Work Addiction viene anche denominata Workaholism. Il termine Workaholism, o “ubriaco da lavoro”, nasce negli Stati Uniti (Oates, 1971) e deriva dalla stretta analogia che tale patologia ha con l’alcolismo. Il Workaholism è in stretta connessione con i mutamenti sociali, culturali ed economici che si sono susseguiti negli ultimi decenni e che hanno profondamente variato il significato che l’individuo, ma anche la società in generale, attribuisce al termine “lavoro”, al tempo dedicato alle attività lavorative e alle modalità e agli ambienti di svolgimento del lavoro stesso.

Nonostante le ricerche sul Workaholism siano ormai state avviate da diversi anni, non è ancora possibile identificare una sua definizione univoca, e neppure individuare una teoria esaustiva che spieghi questa dipendenza nel suo insieme. Di conseguenza, vi sono punti di vista discordanti rispetto alle differenti cause e alle conseguenze della Work Addiction sia a livello individuale, sia a livello familiare, sia a livello organizzativo.

È certo che la dipendenza lavorativa è connotata dall’esclusività del lavoro, oltre che nella vita reale, soprattutto in quella mentale di una persona. La persona si rappresenta solo attraverso tale bisogno. Nella Work Addiction manca il desiderio e il progetto di fare qualcosa che sempre viene giustificato e razionalizzato raccontando a se stessi, e agli altri, che non è possibile attuarlo a causa degli impegni lavorativi.

Pensiamo che la dipendenza da lavoro oggi sia ancora un fenomeno sottovalutato e poco riconosciuto nell’ambito del disagio psicologico e da ciò ne deriva che essa viene diagnosticata solo quando è resa evidente da altri problemi psicologici o fisici, quindi permettendo una diagnosi solo in fase avanzata. Nonostante sia una patologia ostica da rilevare, occorre sensibilizzare la comunità, i luoghi di lavoro, i familiari a cogliere quei dettagli che potrebbero destare sospetto, indagando le abitudini di vita della persona e prestando attenzione alle sue relazioni interpersonali, nonché ai cambiamenti della sua emotività.

Com’è cambiato nel tempo il rapporto con il lavoro?

Nelle antiche società, il lavoro non veniva inteso con lo stesso significato che assume oggi nella nostra società, ovvero l’impiego di risorse fisiche e mentali per la produzione di un servizio o di un bene. Storicamente, con l’avvento della suddivisione della società in classi separate gerarchicamente, il lavoro era destinato a coloro i quali facevano parte della schiavitù: in particolare, le società greca e romana relegavano le attività lavorative agli schiavi, mentre, al contrario, dedicavano la propria vita ad obiettivi ed interessi ritenuti superiori.

Tutto prese un’altra accezione con l’avvento dell’età industriale: il concetto di lavoro assunse un significato molto vicino all’attuale, inteso ad indicare la produzione, lo sviluppo, la creatività. Insiti in questo processo, vi erano il senso di socializzazione, di forte comunanza e condivisione di obiettivi simili. Al termine del secolo, dopo i contributi di Marx, il concetto di lavoro diventò molto ampio, sinonimo di trasformazione, creazione, nozione che concerne qualsiasi attività la quale sostituisca la dimensione naturale con quella umana.

Nel XX secolo si configura come un sistema di suddivisione e ripartizione del reddito fra i membri di una società, come partecipazione alla creazione di servizi o beni, come riconoscimento di sicurezza e diritti. Attualmente, il concetto di lavoro è costantemente in fase di mutamento. Basti pensare alla velocità con cui le tecnologie cambiano, anche in modi del tutto inaspettati, determinando trasformazioni della cultura, ma anche dei rapporti sociali, economici e giuridici.

Il lavoro, assume la forma di sostentamento economico, sociale, di relazione ed addirittura morale, inteso come realizzazione personale e individuale, senso e progetto di vita, senza il quale l’uomo può arrivare a sperimentare meccanismi di frustrazione, demoralizzazione, paura, mortificazione, disperazione, quando viene a mancare. La pratica lavorativa incarna in sé un carico di tale natura a causa di diversi fattori concatenati. Basta soffermarsi a pensare, ad esempio, al motivo che spinge l’individuo a ricercare e specializzarsi in attività che richiedano sempre maggiori competenze professionali. A frapporsi in questo processo, non è solamente l’ipotesi di un guadagno più consistente, quanto piuttosto spesso è la società stessa a stimolare il singolo a seguire questa direzione. La società sembra parlare di valutazione dell’individuo non per la sua singolarità, ma per l’attività che svolge, per il ruolo e lo status che ricopre all’interno di un sistema: il fare ed il lavoro diventano parte integrante della nostra identità e meccanismi di approvazione sociale.

Bazyk (2005) categorizza il lavoro sulla base di tre fattori determinati:

  • biologici: intendendo il lavoro come mezzo per garantirsi le necessarie condizioni per la sopravvivenza;
  • sociali: in quanto è la società che impone ed assegna il “valore” ed i “valori” al lavoro;
  • temporali: il tempo impiegato a lavorare occupa gran parte della nostra vita e il suo significato si sviluppa nel corso della vita dell’individuo, tanto che, oggi gli individui vengono identificati in base al proprio lavoro, alle proprie scelte lavorative, allo sviluppo della loro carriera.

Da qui, risulta ovvio e chiaro come il lavoro sia strettamente connesso con dinamiche psicologiche e sociali che la natura umana incarna in sé.

Identikit del Workaholic

La Workaholism è stata introdotta nel 1971 da Oates, per intendere la necessità incontrollabile ed ingestibile di lavorare costantemente, così da essere annoverata nella categoria delle “New Addiction”, ovvero delle “Nuove dipendenze”. Innanzitutto occorre esplicitare e precisare che la dipendenza da lavoro è una malattia a tutti gli effetti. Una malattia subdola, perché il più delle volte difficilmente riconoscibile, anzi spesso viene confusa con la voglia di fare, la dedizione al lavoro, la passione per le proprie attività. Una diagnosi ufficiale di “dipendenza dal lavoro” può essere difficile da fare poiché nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) non vengono specificati i criteri per questo particolare tipo di dipendenza. Allo stesso tempo però, la dipendenza da lavoro può essere associata ad alcuni modelli di comportamenti simili a quelli di altre dipendenze; ad esempio, hanno in comune il continuare a perpetrare i comportamenti di dipendenza, nonostante le ripercussioni negative sullo stato fisico e mentale, ma anche su quello relazionale ed emotivo.

Come precedentemente affermato, il lavoro, nel corso della storia, è sempre stato inteso come un’attività fondamentale e caratterizzante per la vita dell’uomo. È proprio la società stessa che, fin da bambini, ci tramanda il senso del lavoro come un valore, come un mezzo per raggiugere il successo nella vita sotto svariati punti di vista: economico, affettivo, sociale.

Questa particolare dipendenza viene definita da Robinson (1998) la “dipendenza ben vestita” in quanto è un fenomeno non riconosciuto dalla società perché proprio la società stessa incoraggia e loda l’individuo che dedica tutta la sua vita al lavoro e riceve da questa potere, prestigio e denaro. Nella letteratura internazionale la dipendenza da lavoro viene definita come “un Disturbo Ossessivo-Compulsivo”, che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, un’incapacità a regolare le proprie abitudini lavorative fino all’esclusione delle altre principali attività della vita (ibidem). Secondo la definizione di Oates (1971), il Workaholic è una persona il cui bisogno di lavorare è talmente eccessivo da creare notevoli disagi e interferenze nello stato di salute, nella felicità personale, nelle relazioni personali e nel suo funzionamento sociale. In questo caso, il soggetto cerca di alleviare sentimenti di ansia, vuoto e bassa autostima dedicando tutto il suo tempo ed energie alla sfera lavorativa. Da qui la sensazione di “valere molto” derivante dal “fare molto”. Il fenomeno del Workaholism interessa circa il 25% della popolazione, con una prevalenza per il genere maschile, anche se il numero di donne interessate è in costante aumento.

Le caratteristiche peculiari di una persona affetta da dipendenza da lavoro si rintracciano prevalentemente nell’incapacità di ritagliarsi dei momenti di svago, nella mancanza di segni di disagio nel “sacrificarsi” per il lavoro e l’idea costante di dover dedicare le proprie risorse ed energie per lavorare, come se la vita fosse a completa disposizione del lavoro: “vivere per lavorare” e non “lavorare per vivere”. Il Workaholic vede il lavoro come il solo luogo confortevole rispetto al resto del mondo e come il mezzo per prendere le distanze da sentimenti spiacevoli, come ad esempio la percezione di non essere adeguato in uno o più contesti della sua vita; non riesce a differenziare l’ufficio dalla propria casa, si porta il lavoro ovunque, anche nei fine settimana e durante le vacanze.

Brevemente, come riportato da Guerreschi (2009), esistono quattro tipologie di Workaholic:

  • il Lavoratore Compulsivo, caratterizzato da una così forte forma di compulsione verso il lavoro che lo porta ad essere estremamente perfezionista;
  • il Lavoratore Frenetico, che condivide con il profilo precedente l’aspetto della compulsione, ma che non risulta stabile nel tempo variando di intensità raggiungendo talvolta limiti estremi;
  • il Lavoratore Nascosto, che si caratterizza per la consapevolezza di un rapporto inadeguato verso il proprio lavoro e che tuttavia agisce in modo eccessivo nel lavoro solamente nel momento in cui i suoi comportamenti non possono essere osservabili da altre persone;
  • il Lavoratore Anoressico, infine, rifiuta la dipendenza verso il lavoro attraverso strategie di evitamento che tuttavia provocano l’insorgenza di sensi di colpa.

Secondo ulteriori contributi di Guerreschi, sembra esistere una predisposizione alla dipendenza da lavoro, in particolar modo sembra derivare dal modello educativo ricevuto in famiglia, dove solo in seguito a prestazioni o rendimenti positivi, il bambino era legittimato a ricevere amore ed attenzioni. Molti Workaholic hanno un basso livello di autostima e dubitano di se stessi: secondo questa interpretazione, le prestazioni lavorative potrebbero essere un tentativo del soggetto di ottenere l’approvazione dei genitori. Oppure, si tratterebbe di persone che hanno vissuto in famiglie dove il lavoro ricopriva un’importanza superiore ad ogni altra cosa o, al contrario, in famiglie con genitori disoccupati. In quest’ultimo caso, il Workaholic lavora duramente e in modo ossessivo per allontanare la prospettiva di un eventuale disastro economico.

Dalla ricerche sembra che il rischio di diventare dipendenti da lavoro sia maggiore nei liberi professionisti, piuttosto che nei dipendenti. McMillan e O’Driscoll (2008) evidenziano come gli studi sul Workaholism nel corso del tempo hanno portato a ritenere tale costrutto universale rilevandolo in diversi contesti nazionali: nei Paesi Occidentali, in Asia e nell’estremo Oriente, nel Medio Oriente e in Oceania; in numerose professioni (operai, personale ospedaliero, manager, assicuratori, rappresentanti) e indipendentemente dalle fasce di reddito.

Le motivazioni a lavorare eccessivamente possono essere di vario genere: possono derivare dal piacere per il proprio lavoro (Porter, 2004) o da motivazioni estrinseche come l’incremento salariale, o intrinseche come ad esempio le promozioni (Brett & Stroth, 2003) e più in generale dall’interazione tra luogo di lavoro, incentivi, condizioni di lavoro, sviluppo tecnologico e condizioni macro-economiche (Golden & Alman, 2008). Si può venire inghiottiti dal proprio successo, che assorbe le persone in un circolo vizioso di richieste, prestazioni e livelli di difficoltà sempre maggiori per poter dimostrare a se stessi, ma soprattutto agli altri, la propria bravura e competenza.

 

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