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Le helping professions: aiutami ti prego!

Lavorare nell’ambito delle helping professions comporta un costante relazionarsi con persone che vivono disagi, sperimentano sofferenza e necessitano di cure e attenzioni costanti. L’interazione tra operatore e utente comporta un intenso coinvolgimento emotivo. É un’interazione centrata su una relazione d’aiuto, che comporta l’aspettativa di una soluzione dei problemi contingenti del paziente (fisici ma anche psicologici e relazionali), la quale, non sempre è semplice o ottenibile dall’operatore. La frequente esposizione a situazioni emotivamente esigenti può alimentare condizioni di stress anche molto acute e condurre le persone ad un maggior rischio di burnout. Gli infermieri, ad esempio, come i medici, sono costantemente esposti a situazioni emotive legate alla sofferenza degli assistiti (Bonino, & Giordanengo, 1993). Per questa ragione potrebbero tendere a sviluppare strategie di coping orientate a proteggersi da un eccessivo coinvolgimento e a ridurre i costi dell’empatia.

Christina Maslach (1981) afferma che tutti coloro i quali svolgono le helping professions (professioni di aiuto) rappresentano “il caso più tipico, l’esempio per eccellenza di un lavoro ad alto stress professionale”. Queste professioni sono “high-touch”, cioè a contatto continuo, e questo comporta contatti diretti e protratti nel tempo con persone in difficoltà e che richiedono immediata assistenza (Maslach, Leiter, 2000). Il rapporto con i pazienti, il carico di lavoro, i turni, le mansioni da svolgere, e le continue richieste dell’organizzazione, dei pazienti e anche delle loro famiglie, sono tutti fattori che portano l’operatore sanitario a sperimentare gravi situazioni di stress, rischiando di “consumare le proprie energie soprattutto a livello emotivo” (Baiocco et al., 2004).

Non ce la faccio più! Il burnout e le sue conseguenze

Secondo Cherniss (1980) il burnout è un processo costituito da più fasi, in cui si osserva un cambiamento negativo progressivo negli atteggiamenti del comportamento di chi lavora, in risposta a una condizione di stress lavorativo. In italia, Contessa (1987) utilizza il termine “cortocircuitato”, per indicare l’operatore soggetto a burnout. Sottolinea come il sovraccarico di energie spese può far entrare in cortocircuito la volontà del soggetto di aiutare gli altri come faceva in precedenza. Per Christina Maslach (1981; 1997), che ne sottolinea la specificità per tutte le professioni di aiuto, il burnout è “una sindrome caratterizzata da

  • esaurimento emotivo
  • depersonalizzazione
  • ridotta realizzazione personale

che riguarda tutti coloro il cui lavoro è fortemente impegnativo da un punto di vista relazionale”.

Tra le conseguenze più riscontrate nei soggetti che vivono la condizione di burnout, vi troviamo il deterioramento delle emozioni. Gli operatori che sperimentano questa sindrome non concepisco più come significativo il rapporto con il paziente, sperimentano il fallimento nel ruolo di aiuto, distacco emotivo e pessimismo. Considerato l’esaurimento emotivo come uno degli aspetti del costrutto di burnout, ci si domanda allora se vi sia una relazione tra empatia e burnout. 

L’empatia: ti metti nei miei panni?

L’empatia ci permette di dare un senso al comportamento degli altri, prevedere che cosa potrebbero fare, come si sentono e anche sentirsi collegati all’altra persona e rispondere adeguatamente. Titchener (1909) utilizza il vocabolo “empathy” come traduzione del termine tedesco “Einfühlung”, che significa “sentire dentro”. Lipps (1905) lo utilizza in riferimento al godimento estetico, e parla di una partecipazione profonda all’esperienza di un altro essere. Mead (1934) riconosce la differenziazione che nell’empatia esiste tra “sé” e “l’altro da sé”, aggiungendo una componente cognitiva, cioè l’abilità di capire e comprendere. Secondo Eagle at al. (1997), l’empatia si riferisce alla capacità di mettere sé stessi nei panni dell’altro, assumere il ruolo dell’altro, vederlo dal suo quadro di riferimento interno. Altri autori ne sottolineano l’aspetto relazionale (Goleman,1995) ritenendo l’empatia una competenza sociale in grado d’aiutare l’individuo nella costruzione di una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente.

L’empatia è una questione cognitiva o affettiva?

Da quando Titchener ha introdotto il termine “empathy” in psicologia, esso ha assunto significati diversi, risultando un costrutto difficile da definire e difficile da misurare (Hojat, 2007). In letteratura emergono da un lato, un approccio affettivo, secondo cui l’empatia sarebbe un evento di partecipazione/condivisione del vissuto emotivo dell’altro, seppure in modo vicario. Dall’altro un approccio cognitivista che considera l’empatia come un fenomeno prettamente cognitivo, mettendo in risalto aspetti quali la capacità di mettersi nei panni dell’altro e l’abilità nella regolazione delle proprie emozioni. È importante, inoltre, distinguere l’“empatia” dalla “simpatia” o dalla “compassione”. In tutti e tre i casi, “sentiamo” per l’altra persona, però, quando “empatizziamo” condividiamo i sentimenti dell’altra persona, mentre quando “simpatizziamo” o mostriamo “compassione” non necessariamente condividiamo la stessa emozione (quando sento empatia per una persona che è triste, mi sento anche io triste. Se invece simpatizzo, posso provare pietà o preoccupazione per la persona, ma non sono necessariamente triste) (Vignemont, & Singer, 2006).

Intorno agli anni ’80, inizia a emergere un paradigma multidimensionale del costrutto (Eisenberg, 1986). Alcune ricerche evidenziano come l’empatia cognitiva e quella affettiva inevitabilmente si influenzino l’un l’altra (Bower 1983; Isen 1984). Si tende all’integrazione tra l’approccio emozionale e quello cognitivo, definendo l’empatia come avente in sé sia componenti affettive che cognitive.

Quanto conta l’empatia nelle helping professions?

Insieme all’ascolto attivo, alla fiducia, al rispetto, alla genuinità e al rispondere alle preoccupazioni dei clienti, l’empatia è tra le qualità della relazione terapeutica. Nelle professioni di aiuto il rispecchiamento dei sentimenti, il prestare attenzione e l’ascolto efficace, sono abilità fondamentali per la pratica clinica se si vuole sviluppare una relazione di fiducia con il cliente (Ivey & Ivey, 2004).

Nella cura del paziente, l’empatia comporta la comprensione delle esperienze e delle preoccupazioni dei pazienti e la capacità di comunicare questa comprensione, prevenendo e alleviando il dolore e la sofferenza (Hojat at al., 2002; 2007; 2009). Anche in ambito medico però, secondo Hojat e colleghi (2007) conviene distinguere la “simpatia” (intesa come un attributo prevalentemente affettivo o emozionale che coinvolge sentimenti intensi verso il dolore e la sofferenza di un paziente), dall’“empatia”, in quanto porterebbero a un comportamento clinico diverso e a un diverso outcome del paziente. Un medico simpatico sarebbe più preso dalla condivisione dei dolori e della sofferenza del paziente, rispetto ad un medico empatico. Un eccesso di solidarietà può essere svantaggioso per il rapporto medico-paziente, influenzando neutralità e processi decisionali. La simpatia può condurre al burnout (Linley, & Joseph, 2007).

Di chi è la colpa: dell’empatia o del burnout?

Secondo la Teoria della compassione, un’eccessiva empatia condurrebbe al burnout. Eccessive capacità empatiche aumenterebbero le possibilità di esaurimento emotivo e burnout. Per contro, secondo la Teoria della Dissonanza Emozionale, il burnout sarebbe associato a diminuite capacità empatiche. Entrambe queste teorie vedono l’empatia (in eccesso o in difetto) come causa del burnout. Altre ipotesi invece, vedono l’empatia come fattore protettivo dal burnout mentre altre ancora ritengono che sia il burnout ad alterare l’empatia (Thirioux, B., Birault, F., & Jaafari, N., 2016). Anche se le evidenze scientifiche confermano, quindi, sicuramente una relazione tra empatia e burnout, le caratteristiche di questa complessa relazione non sono ancora certe e ben definite. Da un lato sembra che l’empatia sia benefica per i medici e influisca anche positivamente sulla cura e sull’aderenza ai trattamenti prescritti da parte dei pazienti. Dall’altro sembra invece che essa sia causa di burnout oppure ancora che sia il burnout a danneggiare l’empatia. Dove sta dunque la verità?

La natura multidimensionale del burnout, quella dell’empatia e la sua distinzione dalla simpatia richiedono certamente una lettura ampia e articolata della relazione esistente tra i due costrutti. L’impatto crescente del burnout sul benessere delle persone che svolgono professioni di aiuto e gli oneri finanziari che ne conseguono, richiedono indagini e studi approfonditi per cercare di identificare precocemente il personale “a rischio” e implementare programmi di prevenzione efficaci. A tale scopo, gli studi futuri dovranno quindi incentrare le loro ricerche sulla definizione della natura e della direzionalità di questa relazione.

Dott.ssa Rossella Valenzano, Psicologa clinica e giuridica

 

Riferimenti bibliografici

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