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Età evolutiva

La mamma è sempre la mamma! E il papà?

Dinamiche di attaccamento in famiglia

Per raggiungere sicurezza in sé, autonomia e autoefficacia, i bambini devono mantenere vicinanza, protezione e relazioni con figure di attaccamento disponibili e affettive; al contrario interazioni con figure evitanti e rifiutanti, avviliscono il bimbo non permettendogli di essere espressivo, sensibile e collaborativo, e plasmando così le sue capacità intrapersonali e interpersonali in modo carente.

Un funzionamento corretto del sistema di attaccamento implica che il soggetto abbia acquisito modi efficaci di esprimere i suoi stati d’animo e chiedere sostegno, sia sensibile ai segnali del partner e chiaro nell’interpretarli, sia capace di gestire incomprensioni e conflitti. Al contrario, ripetuti insuccessi nella relazione con la FdA, portano all’adozione di strategie secondarie di attaccamento (iperattivazione ansiosa o disattivazione evitante) che possono condurre a gravi carenze nelle abilità interpersonali, emotive e individuali.

Dinamiche di attaccamento in famiglia

Quando si parla di attaccamento, dobbiamo ricordarci che è molto importante il contesto in cui solitamente prende vita, ovvero la famiglia; rispetto a questo lo studioso Byng-Hall esplicita il suo pensiero, affermando che: “una famiglia fornisce una rete affidabile di relazioni di attaccamento che consentono a tutti i membri della famiglia e a qualsiasi età, di sentirsi abbastanza sicuri da spingersi a esplorare le relazioni che vi sono tra loro e quelle che hanno instaurato all’esterno della famiglia”.

Oltre a Byng-Hall anche Mary Ainsworth aveva posto l’accento sull’importanza delle relazioni familiari parlando di “sicurezza familiare”, e sostenendo di non limitare le sue osservazioni alla diade bambino-caregiver, ma cercando di comprendere le interazioni all’interno del sistema più ampio in cui il bambino è inserito. C’era la necessità di estendere l’attaccamento oltre la diade, collocandolo in un’unità emozionale più ampia cioè la famiglia, nella quale le relazioni madre-bambino e padre-bambino non sono separate, ma sono l’una parte essenziale dell’altra.

Prendendo in analisi il sistema familiare, la sicurezza dell’attaccamento può venire meno anche a causa d’importanti trasformazioni dell’assetto familiare, come capita in occasione di eventi critici del ciclo vitale. Secondo tale prospettiva, il bambino non si legherebbe solo alla sua FdA, ma all’intero campo emozionale della famiglia, al funzionamento della coppia genitoriale e alla natura delle relazioni con gli altri membri che rappresenterebbero la rete globale di relazioni. Perciò, nel campo semantico (cioè esperienziale, emozionale, affettivo, cognitivo) della relazione di accudimento materno (allattamento e cura) si muovono altri personaggi (padre, nonni, fratelli, amici di famiglia etc.) che sono progressivamente raggiunti da un senso di significazione per il piccolo.

Secondo lo studioso Bowlby, il bambino forma una “gerarchia di figure affettive”, le quali pur non fungendo da figure di attaccamento primarie, possono porsi come un contesto di protezione più esteso: il padre ad esempio può essere un fattore di protezione nel compensare un legame di attaccamento madre-bambino distorto.

Anche la relazione di coppia, alla base della struttura familiare, è importante per la trasmissione di un attaccamento sicuro alla prole, infatti, avere un legame con un partner sicuro permette a una donna di esplorare al meglio la sua relazione con il figlio. Sembrerebbe esserci un’interdipendenza tra la qualità della relazione di coppia e il rapporto genitore-bambino, e che la sensibilità nei confronti dei bisogni di quest’ultimo sia intimamente connessa all’appagamento coniugale; il rapporto di coppia è perciò basilare, per un coinvolgimento genitoriale ottimale.

Porsi come genitore “base sicura” può riguardare quindi non solo la propria visione di sé e del mondo, ma anche la possibilità di avvalersi di un partner o di altri membri familiari, come “contesti di attaccamento” che permettono un migliore approccio nella relazione con un figlio; da ciò deduciamo la necessità dare importanza anche alle altre figure che non siano la madre biologica, tenendo conto del loro importante contributo nei processi di attaccamento in famiglia. Il padre pertanto, non è solamente ciò che illumina la diade madre-bambino ma è, assieme a questa, l’essenza di un insieme in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.

Il ruolo del padre nell’attaccamento

Tutti i membri familiari giocano un ruolo peculiare in tali rapporti, sebbene da sempre la relazione primaria sia considerata quella tra madre-bambino. La maggior parte delle ricerche sui primi anni di vita hanno approfondito le dinamiche di tale relazione, letta come “diade”, trascurando spesso il rapporto che il piccolo intraprende invece, con il padre. Negli ultimi anni però gli studi in questo campo hanno fatto notevoli passi avanti, dando nuovi spunti ed opportunità di riflessione sulla reale importanza di entrambe le figure genitoriali.

I dati delle ricerche sull’attaccamento affermano che il padre sia estremamente importante già dai primi tre anni di vita del bimbo, ma il suo ruolo va studiato non tanto nel rapporto diretto con il piccolo, ma all’interno di una triade; sembrerebbe che questa tendenza, piuttosto che quella verso scambi diadici, poggi su una motivazione sociale di base, che porta a parlare di una competenza triangolare presente fin dalla nascita e che è considerata un organizzatore dell’esperienza sociale e dello sviluppo cognitivo, si parla pertanto della presenza di un “triangolo primario”; quest’ultimo è manifesto nel momento in cui già a tre mesi, il bimbo è in grado di coordinare attenzione ed affetto su due genitori.

Tuttavia, questa capacità del bambino di potersi appoggiare ad altre figure che non siano quella di attaccamento principale, non può essere considerata prova di una tendenza di base a formare attaccamenti plurimi, difatti, è tuttora dibattuta l’ipotesi di avere la propensione a più figure di attaccamento. Sembrerebbe possibile affermare, infatti, che nel nostro DNA ci sia una tendenza a formare legami di attaccamento monotropici, questo però non esclude, tuttavia, che a livello cognitivo il bimbo non sia pronto per interazioni triangolari; dobbiamo, infatti, ricordarci che noi siamo una specie “biparentale”, cioè i nostri piccoli possono sopravvivere al meglio solo se sono presenti un padre e una madre a prendersi cura di loro. È in questa prospettiva articolata che può essere letta l’importanza del ruolo paterno nello sviluppo umano e nella formazione dei legami di attaccamento del bambino.

Il padre, in assenza o in sostituzione di una madre poco presente, può porsi come figura di attaccamento principale ed avere così un ruolo vitale nella costruzione del sé del figlio; nel caso in cui invece, la madre è presente, il padre può essere scelto dal piccolo come figura secondaria, instaurando con lui una relazione provvista di quel calore e supporto che potrebbero essere carenti in quella con la madre. Il padre in tal caso stabilirebbe una relazione protettiva e compensatoria con il bambino.

Inoltre, la figura paterna farebbe da appoggio diretto alla moglie, il padre è un individuo che è in grado di far scattare un processo di trasformazione dello schema che la moglie ha di sé stessa e delle relazioni in cui il bimbo è inserito. Se il padre si coinvolge nella cura del figlio, influenza la relazione che c’è tra quest’ultimo e la madre, ponendosi come parte di una situazione di protezione, al cui interno è garantito il funzionamento ottimale del piccolo.

Il padre anche quando è una seconda scelta, si può porre come fattore di sicurezza, conforto e supporto per il piccolo, aiutandolo a separarsi psicologicamente dalla mamma e sostenendo la stessa a reinserirsi amorevolmente all’interno di un rapporto di coppia in cui possa di nuovo sentirsi valorizzata. L’instaurarsi di una buona relazione sicura e significativa con il padre consente un adeguato sviluppo sociale ed emotivo al bambino, il quale inizia un processo di separazione dalla madre che lo porterà gradualmente verso l’emancipazione dall’infanzia e l’ingresso nel mondo adulto.

Il padre può essere perciò una figura di attaccamento principale, anche se la forma di accudimento sarà sostanzialmente differente da quella materna, poiché la comprensione che può avere un padre dei bisogni emotivi del piccolo è necessariamente ridotta; infatti, se un bambino è in una circostanza che gli provoca paura, prediligerà solitamente come rifugio l’abbraccio della mamma, mentre se si trova in una situazione più ludica e tranquilla, preferirà la compagnia di un padre.

Uno spunto curioso è quello proposto da alcune ricerche che hanno come argomento principale, l’impatto e la differenza tra l’amore di un padre rispetto a quello di una madre, i risultati provenienti da più di 500 di questi studi suggeriscono che i bambini sperimentano l’influenza del rifiuto da parte del padre come superiore rispetto a quello della madre. La spiegazione è stata data da un team di psicologi, provenienti da 13 nazioni che lavorano all’International Father Acceptance Rejection Project e che hanno sviluppato una spiegazione di questa differenza: i bambini e i giovani adulti tendono a fare maggiore attenzione a qualsiasi genitore che percepiscono avere una maggiore potenza interpersonale o di prestigio. Solitamente questo ruolo è relegato alla figura paterna, che da sempre svolge un ruolo fondamentale all’interno della famiglia.

Il messaggio di questa ricerca è che l’amore paterno è fondamentale per lo sviluppo di una persona e dovrebbe contribuire a motivare molti uomini ad essere più coinvolti nella promozione della cura del bambino. Possiamo consolidare perciò, l’effettiva importanza della presenza della figura paterna nella vita del bambino. Il padre può essere considerato una figura di attaccamento poiché le sue caratteristiche influiscono sulla qualità dell’attaccamento del bambino e la sua presenza continua e responsiva può rappresentare un fattore protettivo rispetto ad eventuali patologie psichiche.

 

 Scritto da Lara Ermini, Psicologa clinica e di Comunità

 

 

Bibliografia

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