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Dipendenze

Workaholism, se il lavoro è dipendenza | Parte II

Leggi la prima parte dell’articolo

Le teorie sul Workaholism

Le ricerche che si sono susseguite nel corso degli anni, attraverso vari approcci di studio, hanno cercato di spiegare l’interazione tra differenti variabili e Workaholism. Dai risultati, appare evidente come non sia possibile ridurre il corpus teorico ed una esclusiva teoria che spieghi la dipendenza da lavoro, piuttosto sembrano esserci una serie di contributi che, sommati, hanno permesso di avere un quadro più completo e dettagliato.

Le diverse teorie che hanno fornito un contributo allo sviluppo e alla conoscenza del Workaholism sono suddivisibili in: teorie della personalità, teorie delle dipendenza, le teorie sulle emozioni e lo studio di sistemi sociali quali il luogo di lavoro e la famiglia.

In linea generale, è possibile affermare che le teorie della personalità considerino quest’ultima come l’insieme di caratteristiche individuali stabili nel tempo che possono essere originate da stimoli ambientali durante il corso degli anni e che possono essere modificate, ma non completamente eliminate. Pertanto, analizzare il Workaholism all’interno delle teorie della personalità vuol dire considerarlo come una caratteristica stabile nel tempo, che influenza comportamenti e che si differenzia tra gli individui (McMillan & O’Driscoll, 2008). McMillan, O’Driscoll, Marsh, e Brady (2001) considerano il Workaholism come un insieme di comportamenti, che compare nei soggetti a partire dalla tarda adolescenza e che risulta essere stabile nei diversi ambienti lavorativi e che può essere aggravato sta diversi stimoli ambientali, come lo stress.

Il Workaholism viene spesso associato in letteratura ad una vera e propria forma di dipendenza (Albrecht, Kirschner, & Grusser, 2007). Griffiths (2011) sostiene che sia possibile mettere a paragone la dipendenza da lavoro con le altre dipendenze, sia quelle da sostanza, sia quelle comportamentali (gioco d’azzardo, internet, shopping, ecc.), utilizzando gli stessi criteri di valutazione, ovvero:

  • Salienza: il lavoro rappresenta l’attività più importante della vita di una persona, dominandone il pensiero e i comportamenti anche al di fuori dei tradizionali luoghi e tempi di lavoro.
  • Variazione dell’umore: il lavoro viene associato a stati di umore che soggettivamente possono variare dall’eccitazione, alla fuga, alla tranquillità.
  • Tolleranza: il dipendente da lavoro è costretto ad aumentare progressivamente e gradualmente la quantità di tempo passato a svolgere attività lavorative.
  • Astinenza: il dipendente da lavoro subisce negativamente, a livello fisico e psicologico (irritabilità, cambi di umore) le situazioni in cui non gli è permesso di lavorare, ad esempio in periodi di ferie, malattia, ecc.
  • Conflitti: emerge nella persona affetta da dipendenza da lavoro una difficoltà nelle reazioni interpersonali (colleghi, familiari), nelle relazioni con altre attività non lavorative (hobby) e personali (perdita di controllo).
  • Ricaduta: dopo periodi in cui il lavoratore è riuscito a gestire la propria dipendenza dalle attività lavorative, ricade in comportamenti eccessivi, alle volte ancor più estremi.

Nonostante il contributo di Griffiths sia pertinente e metta in luce delle considerazioni importanti, esso risulta essere insufficiente alla spiegazione del fenomeno, in quanto manca di dati empirici e clinici che associno tale forma di dipendenza ad indicatori oggettivi e biologici quali, ad esempio, l’incremento di corticosteroidi e adrenalina (McMillan & O’Driscoll, 2008).

Le teorie delle emozioni permettono di analizzare il Workaholism come un fenomeno che insorge a partire disturbi emotivi. In questo quadro teorico è di particolare importanza lo studio portato avanti da Killinger (2006) che analizza le emozioni associate al Workaholism, con un’attenzione particolare alle diverse forme di paura evidenziate in ordine crescente:

  • la paura del fallimento: la tendenza dei Workaholic ad essere perfezionisti comporta la paura ad essere licenziati o, in qualche modo, puniti dalla propria organizzazione lavorativa. Tale emozione può favorire ancor di più la tendenza ad al lavoro eccessivo;
  • la paura della monotonia: la tendenza a farsi carico di una grande mole di lavoro comporta, specialmente nel proprio tempo libero, sperimentare la paura della monotonia, che a sua volta porta a farsi carico sempre di nuovi compiti basandosi su scelte impulsive, spesso errate;
  • la paura della pigrizia: secondo l’autrice tale paura emerge nei Workaholic in quanto orgogliosi di mostrarsi agli altri come grandi lavoratori, portandosi, ad esempio, il lavoro a casa nei weekend o rimanendo sul luogo di lavoro oltre il consueto orario;
  • la paura della scoperta: derivante dall’ansia legata a mostrarsi sempre all’opera, rimanendo sul luogo di lavoro malgrado non abbiano nessuna attività da compiere. Tale paura può risultare essere sia legata all’essere “scoperti” da colleghi e familiari, ma anche dalla progressiva autoconsapevolezza derivante dalle continue critiche che i Workaholic subiscono al di fuori del contesto lavorativo.

Inoltre, l’autrice suggerisce come i Workaholic, nel tempo perdano capacità empatiche e di compassione e più in generale, si può assistere ad una progressiva incapacità nei rapporti sociali.

Le teorie dei sistemi sociali in relazione alla dipendenza da lavoro, invece, considerano come centrale le dinamiche relazioni all’interno del nucleo familiare, assumendo che il Workaholism sia il risultato di alcune dinamiche familiari disfunzionali, come ad esempio il fenomeno della parentificazione nei figli o l’iper-responsabilizzazione dei genitori (Robinson, 1998a) che vengono mantenute durante il corso del tempo, l’inefficienza delle relazioni familiari (sia tra coniugi, che nelle diverse relazioni tra genitori-figli) o atipiche forme di suddivisione dei ruoli familiari.

Anche il sistema organizzativo nel quale il lavoratore è inserito può essere considerato come influente nella genesi e nel mantenimento della dipendenza. Infatti, al pari del sistema familiare, anche quello organizzativo è rappresentato da relazioni sociali, le quali risentono di aspetti importanti come la cultura organizzativa, le gerarchie, il sistema retributivo. In questo contesto, pertanto, l’organizzazione deve essere considerata come un fattore che, insieme agli altri, può contribuire alla nascita e/o al mantenimento del Workaholism, tanto da far emergere il concetto di “organizzazione Workaholic” (Schaef & Fassel, 1998).

I diversi contributi recentemente sono stati riassunti in modelli integrati che cercano di analizzare il Workaholism in una prospettiva che privilegia l’integrazione tra teorie piuttosto che la loro esclusione. Nel 2008, McMillan e O’Driscoll hanno proposto un modello alternativo allo studio del Workaholism, cercando di sintetizzare gli aspetti più significativi delle teorie esplicitate. A tal fine, è possibile affermare che il Workaholism possa essere studiato e compreso più agevolmente se inserito all’interno di un modello “biopsicosociale”, utilizzato ampiamente in letteratura al fine di spiegare gran parte dei comportamenti umani (Copolov, James, & Milgrom, 2001).

Come sottolineato da McMillan e O’Driscoll (2008, 108), il Workaholism è un costrutto di genesi multifattoriale da analizzare in un ambito multidisciplinare e risulta evidente che «è altamente improbabile che il Workaholism nasca da un singolo evento, possa essere spiegato da una singola teoria, o trattato da un unico approccio terapeutico […] e non è solo un problema individuale, ma sistemico, la cui responsabilità deve essere condivisa tra datori di lavoro, HR manager, terapisti, legislatori, dirigenti, famiglie e singoli lavoratori».

Attraverso un approccio multidisciplinare e tramite l’interazione dei diversi apporti teorici è, pertanto, possibile analizzare i fattori storici che possono favorire, in futuro, l’insorgenza del Workaholism, l’esistenza di una predisposizione al Workaholism, le condizioni lavorative che possono esacerbare il Workaholism, l’esistenza di comportamenti e pensieri che possono essere associati a questa vera e propria forma di dipendenza comportamentale.

Fasi di sviluppo e conseguenze

Il passaggio da un comportamento normale ad uno compulsivo e patologico, può essere diviso in tre fasi (Guerreschi, 2005):

  • Fase iniziale: caratterizzata da uso, abuso e piacere. Il pericolo inizia in modo innocuo e lo stile di vita viene mimetizzato dal lavoro. La persona inizia a lavorare di nascosto, nel tempo libero lavora o legge materiale riguardante il lavoro e lo stile di vita diventa frettoloso. Pensa solo al lavoro, trascurando la famiglia ed altri interessi. In questo stadio, non è possibile individuare evidenti disturbi fisici (mal di testa, mal di stomaco e disturbi cardiaci o circolatori) o psichici (esaurimento, leggere depressioni, disturbi della concentrazione). Il dipendente si dedica sempre più al lavoro poiché le sue forze lavorative sembrano inesauribili, ignorando però questi problemi.
  • Fase critica: caratterizzata da abuso, comportamento evasivo ed assuefazione. La persona, non smette più di lavorare, trova scuse per giustificare il suo lavorare troppo, accumula lavoro e si sente inutile se non è sotto pressione. Essere commiserato dagli altri a causa del tanto lavoro, fa diminuire i sensi di colpa e rafforza l’autostima; aumenta un comportamento aggressivo e impaziente verso i colleghi di lavoro. In questo stadio i sintomi fisici (pressione alta, ulcera e sintomi depressivi) sono così gravi da richiedere interventi medici, interrompendo il lavoro. Tuttavia, le vere cause della sofferenza non sono trattate.
  • Fase cronica: caratterizzata da assuefazione e dipendenza. Questa fase è caratterizzata da lavoro notturno, feriale e festivo. Il dipendente tratta con durezza ed ingiustizia i colleghi che non condividono il suo stile di vita, manca di rispetto alla concorrenza e rinuncia ad ogni aspetto della vita privata. Il dipendente si sente vivo solo grazie alla sua attività professionale, gestendola in modo tale da non dover smettere mai di lavorare, togliendo sempre più ore di sonno arrivando anche a giorni interi senza chiudere occhio; ciò porta ad un rendimento povero ed a sintomi fisici sempre più intensi.

Le conseguenze del lavorare un gran numero di ore sono state indagate a lungo nel corso degli anni. In breve, si evidenzia che, a livello individuale può portare a problemi cardiocircolatori (Van der Hulst, 2003) e problemi del sonno. Il lavorare un gran numero di ore è stato associato nel corso degli anni ad una scarsa salute psicologica, ad un alto conflitto tra vita privata e vita lavorativa, nonché ad un incremento del numero di infortuni sul lavoro (Dembe et al., 2005), tanto da poter portare anche alla morte o “Karoshi”: tale termine proprio della cultura giapponese, è stato coniato appositamente per identificare le morti non dovute ad incidenti sul lavoro, ma ricondotte esclusivamente all’eccessivo lavoro di cui si fa carico un singolo lavoratore (Kanai, 2006).

Appare evidente come le ingenti somme di tempo e di energia spese nel lavoro, vadano ad intaccare le relazioni interpersonali sia all’interno delle organizzazioni lavorative che nella vita quotidiana. Alcuni autori, hanno evidenziato come vi sia una relazione negativa tra Workaholism e conflitto tra colleghi (Porter, 2001) anche se non risulta chiaro se le persone in contatto con i Workaholic abbiano la stessa percezione negativa di tale rapporto (Burke & Ng, 2007); nell’ambiente familiare (Robinson, Flowers, & Carrol, 2001) viene evidenziato come i Workaholic presentino una spiccata difficoltà nelle abilità comunicative, nella partecipazione alle attività familiari e un generale minor coinvolgimento emotivo nelle relazioni familiari.

La grande quantità di tempo associata alle attività lavorative provoca nei Workaholic livelli maggiormente critici di conflitto tra vita privata e vita lavorativa, vista l’impossibilità di mantenere un equilibrio tra le due sfere, spinti dalla dimensione compulsiva.

Spesso, inoltre, il Workaholism viene collegato al costrutto del Burnout. In riferimento a ciò, alcuni studi hanno dimostrato il legame tra le due variabili e nello specifico si è visto un collegamento diretto con la dimensione dell’Esaurimento emotivo, come conseguenza dell’impossibilità di sapersi ritagliare del tempo libero e dei momenti di stacco dal lavoro per recuperare le energie (Schaufeli et al., 2008a; Schaufeli et al., 2008b).

Infine, sembra opportuno ricordare la relazione tra Workaholism e performance lavorativa. Shimazu e Schaufeli (2009) riscontrano una relazione negativa tra Workaholism e performance lavorative suggerendo come il grande numero di conseguenze negative connesse al Workaholism, a livello individuale ed organizzativo, possano provocare una calo nelle performance lavorative.

Come si cura il workaholism?

Trattare una patologia come quella del Workaholism risulta essere per certi versi complicato, in quanto è difficilmente trattabile nel modo in cui sono trattate le altre dipendenze. Appare evidente che risulta impossibile raggiungere una totale astinenza: per quanto problematico possa essere, non si può smettere di lavorare. Inoltre, quasi sempre il dipendente patologico dal lavoro non si rende conto di avere un problema e l’accesso alla riabilitazione viene richiesta dai familiari, i quali devono per primi combattere contro un problema che incontra, come più volte sottolineato, un positivo riscontro sociale.

Come evidenziato nei precedenti paragrafi, la dipendenza patologia da lavoro sembra essere il risultato di diversi fattori concatenati, riscontrabili in più contesti e sistemi di vita del soggetto. Appare dunque fondamentale operare sia a livello individuale sia a livello di sistema, ristabilendo un equilibrio funzionale tra tutti gli aspetti della vita del dipendente.

Nel processo di terapia è fondamentale che la persona riesca a riconoscere e, gradualmente, riappropriarsi delle proprie emozioni; è anche importante lavorare sul costrutto di autostima, spesso danneggiata in questi soggetti, oltre che esplorare i processi autodistruttivi che vengono messi in atto.

Dal momento che spesso i primi a esternare il disagio sono i familiari, una diagnosi precoce potrebbe iniziare anche nell’ambito del trattamento dei problemi familiari o di coppia, in cui la dipendenza da lavoro può giocare un ruolo negativo decisivo (Robinson, Flowers & Ng, 2006). È bene ricordare che la maggior parte delle persone arriva a chiedere aiuto solo quando il comportamento di abuso è diventato così grave da compromettere il funzionamento in diversi ambiti della vita.

Nello screening delle condotte di dipendenza da lavoro, ma anche nelle fasi iniziali del percorso terapeutico, possono essere utilizzati degli strumenti diagnostici ad hoc per facilitare la diagnosi; fra questi citiamo: il Work Addiction Risk Test (WART) di Robinson (1989), la Workaholism Battery (WORK-BAT) di Spence e Robbins (1992), la Schedule for Nonadaptive Personality Workaholism Scale (SNAP-WORK) di Clark (1993) specifici per la condotta additiva.

Il percorso psicoterapeutico dovrebbe includere un insieme integrato di approcci e di tecniche (Pani & Sagliaschi, 2010). Innanzitutto, spesso occorre prescrivere un trattamento farmacologico con uno stabilizzatore dell’umore, per gestire la componente compulsiva e la ricerca ossessiva del lavoro. La psicoterapia, invece, sarà di aiuto al paziente ad apprendere o migliorare specifiche abilità comunicative, l’empatia, la capacità di riflessione e autoanalisi, l’apertura alle relazioni. Occorre, inoltre, dirigere la terapia verso un lavoro specifico sulle emozioni, al fine di identificarle, riconoscerle ed esprimerle nella maniera adeguata nella relazione con se stessi e con gli altri.

Anche la terapia familiare e di coppia dovrebbe essere inserita in un percorso di cura del paziente dipendente, con lo scopo di ripristinare delle modalità comunicative ed interattive funzionali e sane, tramite l’intimità e la condivisione emotiva.

Infine, uno strumento utile può essere il partecipare ai gruppi di auto-mutuo aiuto, importanti per far sentire la persona parte di un gruppo con soggetti che condividono la sua stessa problematica; tali gruppi hanno anche lo scopo di favorire le relazioni interpersonali e permettono di aumentare l’autoefficacia percepita: infatti, ogni membro è di aiuto e supporto all’altro in ogni momento del percorso di recupero.

Questi trattamenti dovrebbero, in conclusione, proporsi di superare la struttura lineare e monotematica del paziente, allo scopo di giungere alla formazione di una modalità circolare e pluritematica di pensare che consenta di prendere in carico il paziente dipendente sotto ogni punto di vista.

 

BIBLIOGRAFIA